mercoledì 2 dicembre 2015

Il popolo di legno di Emanuele Trevi





«Scavando più a fondo si arriva a un livello in cui la vita umana si limita a ronzare, come un frigorifero, rumore indistinto tra i mille rumori della notte; e questo ronzio ispira, in chi ascolta, solo indifferenza. Ma a un livello ancora più profondo, più vicino al nucleo, la vita umana fa ridere. Un riso cretino, come quando Stanlio e Ollio combinano un guaio.»

Il popolo di legno di Emanuele Trevi, pubblicato da Einaudi, è uno dei testi letterari più chiaramente nichilisti dell’ultimo decennio.

Avrei lasciato all’inizio questo libro – scritto molto bene, e decisamente molto meglio di tantissimi altri che ho letto quest’anno, ma ben poco rispondente ai miei gusti – se non fosse stato per l’ambientazione calabrese. 

Vicenda e personaggi avrebbero potuto essere inseriti in un altro ambiente, visto che «come tutti possono vedere, il mondo è quasi totalmente popolato di poveri stronzi e figli di puttana, tutti appesi a una ruota che trasforma i primi nei secondi e viceversa».

Eppure, la specifica insensatezza calabrese appare consustanziale alla vicenda. 

E non per ragioni storiche: «Negli anni Sessanta del Novecento, quel mondo millenario, immutabile, la cui essenza sembrava composta di miseria, beata ignoranza e mancanza di prospettive era agli sgoccioli. Già premevano ai confini le avanguardie del progresso: svincoli di autostrade e superstrade, supermercati, progetti di villaggi turistici. Tutto sarebbe diventato irriconoscibile con la velocità di una catastrofe naturale. Nessuna forza al mondo avrebbe potuto riportare indietro o anche solo rallentare quella devastazione che aveva tutte le apparenze di una festa. Eppure, chiunque avesse vissuto un solo giorno di quella vita antica, prigioniera di se stessa, incapace di qualunque immaginazione, avrebbe sviluppato con il tempo un senso molto acuto – come definirlo? – dell’irrealtà della realtà.» Ma per intrinseche motivazioni esistenziali.

Ha scritto Massimo Recalcati su Psychiatry Online:
«La Calabria di Trevi è una Calabria bekettiana; il deserto senza Dio di Finale di partita. Non è solo una regione dell’Italia abbandonata a se stessa, ma acquista in Trevi la dignità di una cifra della nostra condizione pensata al di là di ogni consolazione e di ogni promessa di redenzione e di riscatto. Come l’Aci Trezza di Giovanni Verga, la Sicilia di Vittorini o le Langhe di Pavese, ma senza che sussista più alcun afflato lirico, alcun segno di resistenza. Essa è perciò più simile alle periferie romane descritte da Pasolini: popolo lasciato fuori, scartato, senza più lingua, senza speranza, senza identità, vittima di uno sviluppo cieco, senza progresso.
I calabresi sono il “popolo di legno”, il popolo che fa esperienza dell’abbandono, dell’insensatezza della vita, della vita che può non valere nulla, che non ha orizzonte, destinata a incenerirsi nel vuoto. Eppure in questo mondo fuori dal mondo prende improvvisamente corpo l’idea di una impresa: dal pulpito di una piccola rete televisiva il Topo conduce una serie di trasmissioni titolate Le avventure di Pinocchio il calabrese. In questa Calabria senza scampo, il Topo osa prendere la parola. Lo fa sfiorando ogni volta la farneticazione e la visione allucinata, ma da essa si sprigiona una forza nuova e imprevista. La parola di un figlio di nessuno raduna il popolo di legno. Se l’Uomo è morto allora viva il burattino di legno! La tesi del Topo è radicale: c’è più verità nella vita come non-senso che nell’idea umanistica della vita come dono. Le sue prediche sono un inno all’anima di legno, all’anima senza Io, all’anima infima, disincantata che non crede più a nessuna illusione. “Noi non siamo i figli della realtà, e non siamo fratelli di nessuno. Noi siamo figli di noi stessi. I figli del falegname. Come Gesù, come Pinocchio”. Il Topo non crede né a Dio – la religione è ai suoi occhi solo un rituale superstizioso -, né all’Uomo, ma solo al legno; non crede al bambino di carne che risorge dal burattino ribelle, ma a quel burattino in preda della vita e alla sua danza sull’abisso. “Chiunque desideri liberare se stesso e gli altri – si chiede – , deve contemplare e desiderare la morte? Come se per liberare una casa da un’antica maledizione fosse necessario raderla al suolo”. (….) Si può conferire un significato alla nostra esistenza se l’esistenza è alla sua origine priva di senso? E’ questa la domanda che incalza assillante in tutte le pagine del romanzo e che attraversa la vita stessa del Topo. Senza eredità, orfano assoluto, egli può accedere solo furiosamente alla libertà. La verità è nel legno o nella carne? Il Topo capovolge provocatoriamente lo schema umanistico: Pinocchio non acquista la sua libertà liberandosi dal legno per divenire carne, ma la perde perché perde la forza ostinata del legno. Egli denuncia come l’assoluto male coloro che vogliono fare il nostro bene. La sua lettura di Pinocchio è anarchica; il racconto di Collodi è quello di una repressione organizzata: la vita selvatica del legno deve essere abbandonata per lasciare il posto a carne addomesticata. Il Topo ribalta le leggi dell’evoluzione: meglio il legno della carne, meglio la libertà della mera sopravvivenza della vita. Il popolo di legno è un popolo che resiste? Anche il fuoco acceso dalla parola del Topo è destinato a spegnersi.»

Il popolo calabrese, naturalmente popolo di legno può, secondo Trevi, più facilmente apprezzare e naturalmente riconoscersi nel messaggio anti-umanista del Topo, che rade al suolo ogni idea di progresso e si lascia vivere, con indifferenza innocente, senza attesa alcuna (e conseguente impegno) di redenzione.

Recensione pubblicata su Zoomsud: 

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