«Scavando
più a fondo si arriva a un livello in cui la vita umana si limita a
ronzare, come un frigorifero, rumore indistinto tra i mille rumori della
notte; e questo ronzio ispira, in chi ascolta, solo indifferenza. Ma a
un livello ancora più profondo, più vicino al nucleo, la vita umana fa
ridere. Un riso cretino, come quando Stanlio e Ollio combinano un
guaio.»
Il popolo di legno di Emanuele Trevi, pubblicato da Einaudi, è uno dei testi letterari più chiaramente nichilisti dell’ultimo decennio.
Avrei
lasciato all’inizio questo libro – scritto molto bene, e decisamente
molto meglio di tantissimi altri che ho letto quest’anno, ma ben poco
rispondente ai miei gusti – se non fosse stato per l’ambientazione
calabrese.
Vicenda
e personaggi avrebbero potuto essere inseriti in un altro ambiente,
visto che «come tutti possono vedere, il mondo è quasi totalmente
popolato di poveri stronzi e figli di puttana, tutti appesi a una ruota
che trasforma i primi nei secondi e viceversa».
Eppure, la specifica insensatezza calabrese appare consustanziale alla vicenda.
E
non per ragioni storiche: «Negli anni Sessanta del Novecento, quel
mondo millenario, immutabile, la cui essenza sembrava composta di
miseria, beata ignoranza e mancanza di prospettive era agli sgoccioli.
Già premevano ai confini le avanguardie del progresso: svincoli di
autostrade e superstrade, supermercati, progetti di villaggi turistici.
Tutto sarebbe diventato irriconoscibile con la velocità di una
catastrofe naturale. Nessuna forza al mondo avrebbe potuto riportare
indietro o anche solo rallentare quella devastazione che aveva tutte le
apparenze di una festa. Eppure, chiunque avesse vissuto un solo giorno
di quella vita antica, prigioniera di se stessa, incapace di qualunque
immaginazione, avrebbe sviluppato con il tempo un senso molto acuto –
come definirlo? – dell’irrealtà della realtà.» Ma per intrinseche
motivazioni esistenziali.
Ha scritto Massimo Recalcati su Psychiatry Online:
«La
Calabria di Trevi è una Calabria bekettiana; il deserto senza Dio di
Finale di partita. Non è solo una regione dell’Italia abbandonata a se
stessa, ma acquista in Trevi la dignità di una cifra della nostra
condizione pensata al di là di ogni consolazione e di ogni promessa di
redenzione e di riscatto. Come l’Aci Trezza di Giovanni Verga, la
Sicilia di Vittorini o le Langhe di Pavese, ma senza che sussista più
alcun afflato lirico, alcun segno di resistenza. Essa è perciò più
simile alle periferie romane descritte da Pasolini: popolo lasciato
fuori, scartato, senza più lingua, senza speranza, senza identità,
vittima di uno sviluppo cieco, senza progresso.
I
calabresi sono il “popolo di legno”, il popolo che fa esperienza
dell’abbandono, dell’insensatezza della vita, della vita che può non
valere nulla, che non ha orizzonte, destinata a incenerirsi nel vuoto.
Eppure in questo mondo fuori dal mondo prende improvvisamente corpo
l’idea di una impresa: dal pulpito di una piccola rete televisiva il
Topo conduce una serie di trasmissioni titolate Le avventure di
Pinocchio il calabrese. In questa Calabria senza scampo, il Topo osa
prendere la parola. Lo fa sfiorando ogni volta la farneticazione e la
visione allucinata, ma da essa si sprigiona una forza nuova e
imprevista. La parola di un figlio di nessuno raduna il popolo di legno.
Se l’Uomo è morto allora viva il burattino di legno! La tesi del Topo è
radicale: c’è più verità nella vita come non-senso che nell’idea
umanistica della vita come dono. Le sue prediche sono un inno all’anima
di legno, all’anima senza Io, all’anima infima, disincantata che non
crede più a nessuna illusione. “Noi non siamo i figli della realtà, e
non siamo fratelli di nessuno. Noi siamo figli di noi stessi. I figli
del falegname. Come Gesù, come Pinocchio”. Il Topo non crede né a Dio –
la religione è ai suoi occhi solo un rituale superstizioso -, né
all’Uomo, ma solo al legno; non crede al bambino di carne che risorge
dal burattino ribelle, ma a quel burattino in preda della vita e alla
sua danza sull’abisso. “Chiunque desideri liberare se stesso e gli altri
– si chiede – , deve contemplare e desiderare la morte? Come se per
liberare una casa da un’antica maledizione fosse necessario raderla al
suolo”. (….) Si può conferire un significato alla nostra esistenza se
l’esistenza è alla sua origine priva di senso? E’ questa la domanda che
incalza assillante in tutte le pagine del romanzo e che attraversa la
vita stessa del Topo. Senza eredità, orfano assoluto, egli può accedere
solo furiosamente alla libertà. La verità è nel legno o nella carne? Il
Topo capovolge provocatoriamente lo schema umanistico: Pinocchio non
acquista la sua libertà liberandosi dal legno per divenire carne, ma la
perde perché perde la forza ostinata del legno. Egli denuncia come
l’assoluto male coloro che vogliono fare il nostro bene. La sua lettura
di Pinocchio è anarchica; il racconto di Collodi è quello di una
repressione organizzata: la vita selvatica del legno deve essere
abbandonata per lasciare il posto a carne addomesticata. Il Topo ribalta
le leggi dell’evoluzione: meglio il legno della carne, meglio la
libertà della mera sopravvivenza della vita. Il popolo di legno è un
popolo che resiste? Anche il fuoco acceso dalla parola del Topo è
destinato a spegnersi.»
Il popolo calabrese, naturalmente popolo di legno può,
secondo Trevi, più facilmente apprezzare e naturalmente riconoscersi
nel messaggio anti-umanista del Topo, che rade al suolo ogni idea di
progresso e si lascia vivere, con indifferenza innocente, senza attesa alcuna (e conseguente impegno) di redenzione.
Recensione pubblicata su Zoomsud:
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