Elena si svegliò di soprassalto, con il cuore che batteva forte e la gola stretta da una sensazione di paura. Doveva aver fatto un brutto sogno, in quei pochi minuti, all’alba, in cui aveva dormito, dopo una notte insonne. Erano tre mesi che la madre era morta, in un pomeriggio grigio e piovoso, giusta cornice ad una fine avvenuta anni dopo che se n’era davvero andata. Prima piccole mancanze, parole che si perdevano, ricordi che si appannavano, poi la mente s’era sbriciolata fino a dissolversi come un biscotto morbido nel the.
Quando la madre aveva cominciato a stare male, Elena aveva lasciato il suo appartamento – aveva vissuto da sola fin da ragazza – e si era trasferita da lei. Era appena andata in pensione e pensava di potersi dedicare a molta palestra e qualche viaggio, ma, nel giro di pochi mesi, la sua vita si scarnificò. Non aveva più il tempo né la forza di una telefonata ad un’amica, di leggere un libro o vedere un film. Il suo tempo e lo spazio della sua mente erano assorbiti dall’accudimento di quella che era stata sua madre, donna forte, vivace, autoritaria, e che, ora, diventava un insieme di ossa che si rattrappivano e di carne che si seccava senza consapevolezza di sé. Era stata fortunata con la badante. Irina s’era dimostrata capace e affidabile ed era stata una compagnia preziosa: se aveva potuto scambiare qualche pensiero che nutrisse ancora il cervello – oltre le parole per i medici o per ordinare la spesa – lo doveva a lei. Irina era rimasta con Elena qualche settimana dopo la morte della madre, poi si era trasferita da un’altra signora raggiunta dalla demenza. Elena aveva pensato che avrebbe cercato una collaboratrice domestica, giusto qualche ora la settimana per i lavori pesanti, ma non l’aveva ancora fatto. Non era ancora in grado di sopportare che qualcuno si aggirasse per casa. Si sentiva uscita da una malattia grave: solo la solitudine assoluta l’avrebbe curata.
Durante gli anni della malattia, Elena aveva accudito la madre con devozione assoluta. Così pensavano i vicini – che la sentivano parlare con lei voce tenera o dare indicazioni attente a Irina – e così sussurravano tra loro quelle che erano state sue amiche se, incontrandosi, il discorso sfiorava anche Elena. Lei, Elena, sapeva che non c’era stato giorno in cui, insieme alla tenerezza, alla pietà, alla premura di predisporre ogni cosa in maniera che la madre potesse, magari chissà, godere ancora di un raggio di sole, di un cibo saporito, di un fiore, non aveva desiderato, almeno per un istante, che la madre morisse. Liberando se stessa e la di lei figlia dalla schiavitù di un tempo tutto determinato dalla necessità. Nel buio di ore tutte uguali, a Elena si aprivano in mente piccoli spiragli di luce: quando avrebbe, di nuovo, preso un gelato al bar, fatto una passeggiata sul lungomare, o, magari, si sarebbe alzata tardi ciondolando in vestaglia per ore.
Nulla di questo era accaduto in quei tre mesi. Era di nuovo libera ma non era la libertà di quand’era giovane, le ore, dopo il lavoro, piene di promesse; piuttosto si sentiva come un’anfora vuota, col vuoto che trasbordava annullandone la forma. E, nel vuoto, la voglia di uscire, di fare cose evaporava presto come il bollore di una pentola col fuoco spento. Come se la libertà senza limitazioni fosse un impedimento più stringente dei vincoli che, per anni, l’avevano costretta: non solo limitandola, ma anche tenendola in piedi.
Nessun commento:
Posta un commento