Siamo sempre dentro la Storia, ma ci sono momenti in cui la densità della Storia si fa più forte.
Il 9 maggio (data anche dell’uccisione di Moro e di Impastato) segna la fine della Seconda Guerra Mondiale in Europa e dà avvio a quella che è, ora, l’Unione Europea.
«Avevamo detto “mai più”, ma provate a chiederlo agli ucraini. La parola “mai” è stata cancellata il 24 febbraio», ha detto V. Zelensky in un video di commemorazione in bianco e nero: scelta ancora una volta giusta di una comunicazione potente che, insieme, esprime e fortifica la Resistenza ucraina.
Non ci sarà pace se non con la sconfitta della Russia.
Non si arriverà alla pace – stabile e duratura – se non potrà essere firmato (in un contesto chiaramente ben diverso: dalla prima, “inutile strage” si passò alla seconda guerra mondiale) un proclama alla Diaz: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.”
Leggo, in Italia, troppo filoputinismo, in parte ricoperto da un pacifismo che non fa i conti con la realtà (un paese, che non è più una grande potenza, ma conserva migliaia di bombe atomiche, ha aggredito un altro paese la cui colpa di voler essere libero), in parte frutto di (anche comprensibili) preoccupazioni e paure di quello che potrebbe succedere, in parte di (deprimenti) egoismi, indifferenze, in parte di (poco chiari) interessi economici e/o di reperti ideologici.
Meno male che Mattarella e Draghi mantengono dritta la strada dell’Italia nel processo di costruzione dell’Europa: in Ucraina, oggi, si gioca anche il futuro dell’Unione.
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