L’aveva sempre chiamato Mamozio, concentrando nel termine il disprezzo e l’insofferenza, quel cubo di marmo – marmo? – all’ingresso del paese. Dove ci sarebbe dovuta essere, insieme a tanto altro di socialmente utile, anche una biblioteca – che ce ne sarebbe stato di bisogno, e anche assai. E che, invece, a parte le carte di identità e la distribuzione dei mastelli della differenziata, le pareva solo un discutibile ammasso di cemento.
Da quando il Centro civico era diventato hub vaccinale, Consola l’aveva guardato con occhi più amorevoli.
- Finalmente serve a qualcosa, aveva pensato.
Mentre aspettava la sua dose, la terza – per le prime due aveva dovuto fare un po’ di decine di chilometri in macchina – in quella che pareva essere stata progettata come sala consiliare della circoscrizione, con le persone in attesa silenziosa e nel via vai di medici, infermieri, volontari, la commozione la assalì alla gola.
La stessa di quando andava a votare. Come se le precipitasse dentro la storia e le si sedimentasse nella trachea la consapevolezza che viveva all’interno di una comunità che, di cammino, nonostante tutto, ne aveva fatto tanto.
Non era scontato che tanta gente lavorasse al bene comune con tanta solerzia e neppure che tanti cittadini, come pacifici soldatini, facessero, ordinatamente, il loro dovere. C’era da ringraziare Draghi e Figliuolo e anche qualche altro. Ma pure tutti quelli che stavano o passavano in luoghi come quello lì.
Ricacciò le lacrime, che avrebbero inutilmente preoccupato il medico pronto a inocularle il vaccino.
Uscendo, il Mamozio le sembrò quasi bello. Pensò che se, poi, mentre ci si muove a uscire dalla pandemia – sperando sempre di più e meglio – si organizzasse il Centro come luogo di cultura per incontrarsi, parlare di libri, vedere film, dibattere sui problemi del luogo e del mondo, sarebbe diventato bellissimo.
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