Shtisel è stata trasmessa, in Italia, a partire dal 2018 su Netflix in tre stagioni per complessive 33 puntate. Gli affezionati sperano nella quarta. |
Shtisel è, probabilmente, la più riuscita operazione culturale degli ultimi anni e, nella sua terza stagione, la cosa più bella della tv del 2021. Livello altissimo della sceneggiatura, dell’interpretazione, della fotografia, della musica per una serie solo sottotitolata (è in yiddish-israeliano), che racconta la quotidianità (i cibi, le preghiere, le discussioni, i dolori, le gioie, l’autoironia) di un gruppo ortodosso ebraico. Lo fa senza giudizi di sorta, seguendo personaggi che non sono manichini di un cliché, ma persone che, pur identificandosi in una regola comune, sono alla ricerca di un’identità personale, di affetti e di lavoro. La lotta per comporre il loro desiderio personale con una prassi religiosa esigente avvertita come scelta libera e appagante dà spessore alle vicende dei diversi membri della famiglia Shtisel. Focalizzate con pudore e discrezione come tanti piccoli romanzi all’interno del romanzo complessivo.
Oltre alla qualità altissima della scrittura, della recitazione, della regia, ad inchiodare lo spettatore /trice alle vicende di Shulem, di Akiva, di Giti, di Ruchami, di Nuklem, di Lippe e di tutti gli altri è, forse, il fatto che egli/ella non vorrebbe vivere neppure mezza giornata in un mondo così pieno di regole lontanissime dal moderno concetto di libertà (basta pensare alla scelta del fidanzato/a affidata a un sensale), e ritmato da un continuum di preghiere che appare estraneo alla nostra società post-cristiana, eppure ne avverte uno strano fascino. Come se l’evocazione di un mondo e di relazioni meno fluidi di quelli in cui vive gli/le desse il conforto della sicurezza, dei limiti ben tracciati all’interno dei quali nasce, si sviluppa, si realizza il desiderio personale: come desiderio, principalmente, di un “tu” che sia l’altra metà di se stessi (un’unità che si può realizzare solo quando ciascuna delle due metà è piena e completa).
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