La figlia unica, pubblicato da Einaudi, (stesso titolo del bel libro di Guadalupe Nettel), è, molto probabilmente, il più semplice dei libri di Abraham B. Yehoshua. E potrebbe, purtroppo, essere anche l’ultimo se l’avanzare della malattia gli impedisse di concludere quello che sta scrivendo e che, di questo, sarebbe la continuazione.
Al centro, una tematica cara a Yehoshua, l’identità ebraica. Che si misura, stavolta, con una società quasi totalmente non ebrea. La vicenda si svolge, infatti, in Italia. Omaggio ad un paese molto amato dal grande scrittore israeliano, che omaggia anche Edmondo De Amicis e il suo Cuore, il libro che ha deciso il suo destino, convincendo a dedicarsi alla narrativa.
Rachele, la ragazzina protagonista, che si sta preparando per il Bat Mitzvah e che, per ordine del padre ebreo non praticante, non può rappresentare la Madonna nella recita natalizia della scuola, ha il brio e la serietà della gioventù, quando i ragazzi/e vogliono capire e fare ciò che è giusto, e pone agli adulti domande spiazzanti.
Ed è lei, in una sorta di accelerato corso formativo messo
in movimento dalla malattia quasi certamente mortale del padre e a cui partecipano
i nonni e la maestra – figura quest’ultima decisiva (Nb: in Italia gli
insegnanti non vanno in pensione a Natale; ma su questa svista di realismo, possiamo tranquillamente
sorvolare) – che tirerà le fila di questo romanzo-apologo-forse testamento
spirituale dell’autore:
«Non un altro dio, papà, hai ragione, il mondo non ha bisogno di un altro dio. Di dei ce ne sono già troppi.
– Allora cosa vuoi che venga al mondo?
– Qualcuno che rimanga con me.
– Con te?
– Sì, con me. Non un dio ma un fratello, un fratello che stia con me quando tu non ci sarai più.»
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