a Carmela e Fabiola
Quando sono arrivata – in anticipo di una quindicina di minuti – Teresa, Rosaria ed Elsa erano già sedute al solito tavolino. Arrivate alla pensione, era diventata un’abitudine vederci da Sottozero il secondo lunedì del mese, nel primo pomeriggio. Lo Stretto davanti a noi, poche persone dopo l’affollamento del fine settimana, un’oasi perfetta per chiacchierare in pace. Negli ultimi quindici mesi, causa pandemia, ci siamo viste solo via Zoom. Oggi ricominciamo, con un brindisi al vaccino fatto. Teresa è ingrassata – “Non ho fatto altro che cucinare, cucinare” – e le gote, gonfie, richiamano il suo volto da bambina. Rosaria non si è più fatta la tinta e sfoggia un caschetto bianco e sbarazzino. Elisa ha i capelli d’ebano – “Era da settembre che non andavo dal parrucchiere. Mi ha tolto una ventina d’anni” – ma la faccia tirata. Siamo state tutte compagne di liceo, anzi io e Teresa anche di elementari e medie. “Caterina, e tu? Chi ti ha conciato così? “Mi sono tagliata i capelli da sola. La prima volta mi sono venuti bene, la seconda meno”. “Si vede”.
Le nostre conversazioni hanno sempre mescolato i fatti del mondo, quelli della città, il lavoro, la famiglia, gli interessi di ciascuna. Teresa è stata la prima a sposarsi; si è separata poco dopo la nascita del primo figlio; risposata, ha avuto altri due figli. Il primo lavora in Svizzera, gli altri due a Milano. È stata professoressa ad Architettura, ama il cinema e non può fare a meno del mare. Rosaria è stata giornalista della sede Rai di Cosenza e mantiene piccole collaborazioni con i giornali locali. È tornata a vivere a Reggio, nella casa di famiglia, con un ampio cortile interno dove coltiva rose. È la più vivace, dà giudizi taglienti, ha uno spiccato senso di sé. Il marito è stato professore di Diritto romano all’università di Catania, carriera seguita dal figlio. Io sono l’unica non sposata. Morti i miei genitori e senza parenti stretti, godo dei vantaggi di una libertà totale, macerata dal tarlo non tanto di non avere figli, quanto dal non avere nipoti: avverto il limite di una vita che non si trasmette e combatto il vuoto riempendomi di libri e di serie tv. Per quaranta anni, ho insegnato italiano e latino al liceo Campanella.
Non ci siamo mai perse, ma a farci ritrovare davvero è stata la morte, in un banale incidente stradale di Claudia, la figlia non ancora diciassettenne di Elsa. Nata molti anni dopo i gemelli Marco e Marcello, Claudia sembrava raccogliere in sé ogni bellezza e virtù, superando in grazia la già bellissima madre. Quando Claudia morì, Elsa – psicologa affermata in una città dove nessuno tuttora confessa di frequentare lo studio di uno psicologo, figuriamoci di una psicologa – stava per separarsi dal marito dopo l’ennesimo tradimento di lui, direttore della più importante banca cittadina. Il dolore divenne un collante più forte di qualsiasi altro sentimento, unendoli più di quanto mai fossero stati.
“Che prendiamo?” – Teresa ama i dolci trasbordanti di crema e panna. Rosaria non va mai oltre un pasticcino. “Io, lo prenderei un gelato…”. Rosaria mi guarda inarcando un sopracciglio. È giugno, la temperatura è ancora fresca, anzi il mare mosso, la nuvolaglia grigia, il vento danno una sensazione quasi autunnale. “Ti faccio compagnia io – dice Elsa – prendiamo un gelato”. Ordino una brioche con gelato al caffè e panna, il gusto che preferisco; lei, una brioche alla crema reggina. La guardiamo interrogative. Sappiamo tutte che è un gusto che non le piace. “Ma piaceva a Claudia”, dice. Sta zitta un istante, poi continua: “Vi devo raccontare cosa è successo venerdì. Sto ancora sottosopra”.
Venerdì, Elsa e Roberto sono andati a Roccella, per controllare lo stato d’una loro casa di vacanze (ne hanno un’altra in montagna, a Gambarie): “Quest’anno i gemelli verranno a fare i bagni”. Si ferma un attimo Elsa, respira, poi continua:
“Roberto sta soffrendo molto con gli occhi. Siamo già stati dal prof. Tripodi, il primario del Policlinico, ma alcuni amici gli hanno consigliato di consultare anche un certo Vollaro, che ha uno studio a due passi dall’ospedale di Melito. È stato professore a Catanzaro, ora è in pensione, viene considerato un luminare”. Un palazzo anonimo, all’esterno; all’interno marmi e stanze grandi e luminose. Il medico, alto, capelli brizzolati verso il bianco, affabile, fa una visita molta accurata a Roberto. Lei chiede di un bagno. Un’infermiera, collaboratrice del medico, le indica un corridoio a destra. Vi si aprivano varie stanze. Ha lo strano impulso di entrare in una, che aveva le tapparelle abbassate, di accendere la luce e guardarsi intorno. Sul tavolo, in una cornice elegante, una foto. Avrebbe voluto urlare, ma non le esce nessun fiato. Il mondo, intorno, le gira vorticosamente. Riesce a ritirarsi in bagno e vi rimane a lungo. Quando torna, il dottore sta spiegando la sua diagnosi al marito. Lei ascolta senza sentire; chiede: “Scusi, sono entrata per sbaglio in una stanza vicino al bagno. Di chi è quella foto?”. Il dottor Vollaro la guarda sorpreso: “È mio figlio, fa studio qui solo l’ultimo mercoledì del mese; è assistente all’università a Messina”. “E la ragazza?” “Quella è una lunga storia”. E racconta.
Dieci anni prima, forse qualcosa in più, Gianfrancesco aveva conosciuto Claudia, in spiaggia, a Roccella, dove avevano affittato una casa per l’estate, e se n’era innamorato. Sinceramente. Perdutamente. I due avevano iniziato a frequentarsi a Reggio – lui, già specializzando a Siena, tornava ogni fine settimana a Reggio per la madre, che combatteva un tumore poi vinto, e, soprattutto, lei, quella ragazza dalle labbra di fragola che voleva fare l’astrofisica: “E ci sarebbe riuscita”. Stava al Campanella e il sabato s’era inventata lo studio a casa di Marina per non tornare a casa a pranzo. “Quando l’abbiamo conosciuta, anche io e mia moglie siamo rimasti affascinati. Non sapevamo se poteva durare; pensavamo che, intanto, era una fortuna che nostro figlio stesse con una così: non le si trovava un difetto. La madre della ragazza, però, non lo voleva proprio vedere mio figlio. Aveva deciso, senza sapere niente di lui, né della famiglia, solo perché più grande, che non andava bene per la figlia. Gianfrancesco voleva che mi presentassi a casa di Claudia, che convincessi la madre sulle sue buone intenzioni. Una cosa assurda, ma, alla fine, gli avevo detto di sì. Non ci fu il tempo. Quando la ragazza morì, mio figlio si chiuse in se stesso. Era un ragazzo brillante, con la battuta sempre pronta, sprizzava gioia di vivere. Ora è un professionista serio, competente, ma non ha più quella luce negli occhi e per nessuna donna, neppure per la moglie – una ragazza amabile – ha mai avuto il sentimento che ha provava per lei.” Elsa scoppiò a piangere. “La conosceva, signora?” “Si, la conoscevo. Di vista.”
Elsa tace. Noi non sappiamo che dire. Nel silenzio, ognuna resta sola con i suoi pensieri, le lacrime si raccolgono in un punto del cuore. Teresa paga per tutte, usciamo dal gazebo e ci mescoliamo alla gente sul lungomare: non tantissima, ma abbastanza per nasconderci in questo sciamare, da un lato il rumore del mare, dall’altro il verde di piante secolari. “Appena anche i ragazzi si vaccinano, salgo qualche giorno a Milano”, dice Teresa. Parliamo dell’estate, degli incontri di nuovo possibili. Gli sguardi che incontro – molti portano la mascherina; chi la tiene abbassata, cammina veloce: siamo un popolo più rispettoso delle regole di quanto si potesse mai pensare – non so decifrarli. Mi chiedo quanta attesa ci sia di una felicità nuova che risarcisca dal dolore che abbiamo attraversato.
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