“Genere” era una parola chiara che definiva il “femminile” e il “maschile”.
Poi arrivò il gender che – decenni fa – era anch’esso una cosa chiara: sostenendo che la “cultura” e non la “natura” producevano certi effetti: era, per esempio, un effetto “culturale” e non “naturale” il fatto che le donne fossero considerate atte a svolgere solo certi lavori.
Quando la Beauvoir scriveva che “donne si diventa, non si nasce” non negava che le donne erano biologicamente femmine diverse dagli uomini biologicamente maschi, ma sottolineava che sull’ inverarsi (per dirla alla Gianbattista Vico) della loro biologia (come su quella dei maschi/uomini) agivano l’ambiente di vita, l’educazione, la cultura.
Oggi il gender indica la divaricazione tra l’oggettivo e il soggettivo. Afferma che non si diventa donne nascendo femmine e uomini nascendo maschi, ma che la biologia non conta, e conta solo “quello che si sente di essere”.
Se ci si confrontasse con l’oggettività del reale, a sgonfiare il palloncino gender come sesso determinato dalla semplice percezione, senza base biologica, basterebbe, forse, l’attuale esperienza dei vaccini antipandemia. Dove è stato lampante che le reazioni del corpo femminile e di quello maschile non sono state le stesse, tanto che più di un esperto ha dichiarato che, nel prossimo futuro, bisognerà occuparsi anche di farmaci “al maschile” e “al femminile”.
Nessun commento:
Posta un commento