Nel 1939, entrando in guerra contro Hitler, l’Inghilterra ha salvato l’Europa
da un baratro che avrebbe potuto inghiottirne per sempre l’antichissima civiltà.
È, insieme a tanti altri momenti della sua storia (dalla Magna Carta in
poi) e alla sua splendida letteratura (Dickens e Austen in testa) e le
benemerite riduzioni della BBC, alla bellezza di Londra e a quella,
struggente, delle sue campagne, ciò che continua a rendere il mio legame con la
Gran Bretagna profondo, viscerale: un luogo profondamente amato, quasi una
patria putativa.
Per questo, mi fa particolarmente male tutto ciò che di male arriva da
quelle parti.
Con il referendum sulla Brexit, settanta anni dopo la vittoria sul
nazismo, l’Inghilterra rischia di dare un colpo pesantissimo alla costruzione
dell’Europa unita.
Costruzione che, oggi, non rispecchia certo i sogni dei padri
fondatori, che è più attenta (e neppure ci riesce più che tanto tanto) alla
finanza rispetto all’effettiva crescita sociale, che promulga norme sulla
grandezza delle vongole ma non sa affrontare l’epocale immigrazione dall’Africa
e dal Medio Oriente, che dà ai paesi membri ordini in campi in cui le
sensibilità non sono omogenee, ecc. ecc.
Eppure, non c’è futuro per nessuno dei paesi europei fuori dalla casa
comune Europa.
Il solo fatto che il referendum sul Brexit si faccia non è positivo per
l’Europa.
Se contrariamente alle previsioni vincesse il no, il segno resterebbe,
ma la ferita, forse, sarebbe rimarginabile.
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