Come tutte le persone di buonsenso, ho sempre pensato
che “camorristi non si nasce, si diventa”.
Negli ultimissimi anni, soprattutto negli ultimi
due-tre, a contatto con i miei allievi, sto arrivando alla conclusione opposta:
“camorristi si nasce”. E non certo per ragioni genetiche. E' che, in certe
periferie, respiri un modo di pensare, di fare, ben prima di nascere, lo succhi
nel liquido amniotico prima ancora che nel latte, cresci a pane e illegalità, a
pizza e spaccio, a babà e ammazzatine, sempre all’interno di un senso di morte
che spinge a cercare, in un modo o nell’altro, ancora morte. Sei immerso da
sempre, ben prima del formarsi di una qualsiasi consapevolezza, in una bolla
nera, da cui uscire implica un difficilissimo processo di liberazione.
Soltanto Saviano, qualche altro intellettuale, alcuni preti e alcuni operatori
sociali hanno – ed esprimono – il senso reale della catastrofe educativa che
intere zone di Napoli (e non solo) attraversano: una tragedia da urlo che
dovrebbe spingere, possibilmente, alla conversione
sociale.
Di fronte a tutto questo, la scuola che può fare?
Oggi, sulla Stampa,
c’è un’intervista di Cesare Moreno che, in larga parte, condivido.
“Noi – dice Moreno – non dobbiamo insegnare quanto la
vita criminale sia dolorosa e schifosa, non dobbiamo smascherare le retoriche
del lusso e del potere che cercano malamente di mascherare la realtà del
crimine. Dobbiamo offrire ai giovani una protezione reale e psichica che oggi
non esiste neppure nei migliori propositi. Noi maestri di strada possiamo solo
testimoniare che una vita buona nonostante tutto è possibile, far vedere che
pur vivendo insieme a loro nello stesso schifo tuttavia non ce ne facciamo
contaminare, far sentire sì tutta la solidarietà di chi sta vivendo con loro
una vita molto difficile
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