Da un bel po’ di anni, la prima
parte del mio gennaio si può sintetizzare in una parola: attesa.
Attesa dei racconti degli autori che
non hanno già consegnato a dicembre. Ormai conosco le abitudini di quasi tutti,
conosco la celerità di alcuni, la maggiore lentezza di altri. Faccio a gara con
me stessa per indovinare chi precederà chi e di quanto e, soprattutto, provo a
indovinare come sarà il racconto dell’autore X e di quello Y: come e quanto l’autore
si atterrà al detto, orale e scritto, in classe o ascolterà, soprattutto, le
suggestioni del non detto.
È, insieme all’ideazione, la fase
più intima e personale di un percorso di mesi collettivo, che mette in gioco
più persone e integra energie differenti.
Qualche mattina fa, ultimo giorno
fissato per la consegna, dei racconti per il nuovo libro di Nisida ne mancavano
ancora tre su dieci.
Alle cinque del pomeriggio ne
mancava solo uno e mi auguravo, contrariamente a tutte le mie ansie, alla mia
urgenza che “tutto sia pronto”, che l’ultimo ci mettesse non tanto, ma ancora un po’ di ore
ad arrivare. Giusto il tempo di riprendermi.
M’era successo anche lo scorso anno,
ma stavolta è stato squassante. Leggendo il terzultimo dei racconti mi sono
commossa, il cuore ha tremato. Leggendo il penultimo arrivato, m’è salita
un’emozione fortissima, un batticuore che m’ha scosso tutta, il senso di una
voragine nello stomaco. Ho ricacciato le lacrime con difficoltà.
Magari gioca un po’ l’età. Ma c’è (molto) di più.
Non è perché, con l’arrivo dei
racconti, si conclude anche il secondo passo per la pubblicazione del libro (concluso
il primo, ovvero la serie degli incontri, mi sono regalata un po’ di zuccheri, gustando
un pasticciotto all’amarena). È qualcosa di più profondo, viscerale.
Ha a che fare con la potenza delle
parole scritte di evocare mondi, idee, emozioni. È che in quelle frasi, in
quelle parole – che ho il privilegio di leggere per prima, da sola – sono incarnate
tante mattine autunnali passate in aula. I discorsi, i silenzi, le rabbie e i sorrisi.
Tanta vita che resterebbe dimenticata e che, invece, proprio quelle parole –
che rimandano ad altre parole, a facce, a voci, a silenzi, a risate e tristezze
– restituiscono nella sua nuda essenzialità.
Il dolore – quello dei ragazzi, quello delle vittime dei loro reati, quello di chi a questo lavoro partecipa, il mio – si raccoglie
nelle parole che scorrono sullo schermo del computer: si stringe in un pugno d’aria
e carne che secerne pianto e attesa.
L'ultimo racconto, forse il più bello, è il tuo.
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