Nel mio cervello passa e ripassa,/come se fosse nella sua
casa,/un gran bel gatto forte e leggiadro. Charles Baudelaire
Una cena turbata da una sorta di
miagolio singhiozzante – flebile e, insieme, stridulo – sempre più vicino,
finché una macchina si ferma di botto sotto casa. Un ragazzo apre il cofano e
ne scappa un gattino piccolo e scuro. Sembra impazzito di paura e zigzaga per
la strada, mentre due ragazze cercano di indirizzare le macchine in transito
lontano da lui. Una riesce a prenderlo, se lo appoggia al petto, ma dice che
non possono tenerlo, sono marchigiani di passaggio. Scendo, faccio posare il
gattino dentro il cortile di casa, gli offro qualche pesciolino del nostro
pasto, lui miagola perdutamente. Un miagolio appena abbozzato, un pianto che
chiede la mamma. Passano un po’ d’ore con il gattino che piange, noi che
saliamo e scendiamo le scale prima per portargli dell’acqua, poi una scatola,
poi un altro contenitore che possa piacergli e, soprattutto, per scacciare un
altro gatto – grande, lungo – che l’assedia minaccioso. La mattina dopo, gli
porto del latte, il gatto assaggia, poi lascia la sua postazione sotto la
macchina vecchia, s’avventura per tutto il cortile, entra in casa, si aggira
per le stanze, esce. Di pomeriggio s’inerpica su una pianta, sale su una
cassetta, supera il muretto e va a stare nel cortile dei vicini, dove ci sono
altri gatti, ciotole dell’acqua e dei croccantini. Adotta quella casa e, gradatamente,
amplia il suo spazio di movimento: prima, nascosto sotto alcune piante, poi
sotto un tavolo, adesso più mobile, sereno e giocoso.
Se si fosse fermato da noi, se ci
avesse adottato, l’avremmo chiamato Bruto, perché, la prima sera, terrorizzato
com’era, non dava l’idea d’essere particolarmente bello, ma chiamarlo “Brutto”,
non ci piaceva.
Il rapido passaggio di Bruto dalla
nostra casa è stata la madeleine che mi ha riportato ad una vicenda che cinque
anni fa, in un agosto che sapeva di morte (mio padre sarebbe finito, dopo anni
di sofferenza, pochi mesi dopo), mi ha dato calore, speranza e tristezza: la
storia di Glaù e dei suoi fratellini che, allora, fermai così (oggi sarei più
sobria, soprattutto in taluni squarci “temporali”).
Chissà quando arriverà il momento
in cui un gatto ci adotterà di nuovo, dopo i tre lustri e passa e abbiamo vissuto
insieme a Sisigatta, membro a pieno titolo della nostra famiglia, e tuttora
grata memoria.
Glaù e i suoi fratelli
1. Nel vento fresco dell’alba, che
fa scivolare veloci nel cielo nuvolette orlate di rosa, un fruscio tra gli
altri ci conduce a uno stanzino d’attrezzi accatastati e sparsi, proprio sotto
il melo cotogno, i cui frutti di un verde sabbioso che riposa il cuore,
maturano al sole di luglio. In un vecchio secchio di plastica blu, basso e
largo, una gatta bianca e grigia sta allattando un imprecisato numero di
batuffoli neri. Non si spaventa e non si arrabbia quando la scopriamo: piega
all’indietro la testa e ci guarda con gli occhi ben aperti, ma tranquilli, con regale
umiltà. Non è nostra. Come tanti/e da queste parti, è una gatta domestica, ma
senza padrone: che gironzola libera, tra tre famiglie, mangiando dove le
lasciano i resti del pranzo e della cena, dormendo qui e là, facendo danni
ugualmente in ogni casa (rottura di vasi, escrementi depositati in cortile). E
regalando, ora all’uno ora all’altro, miracoli come questo.
2. Fosse sempre aperto il portone
d’ingresso, non sarebbero che pochi metri. Ma una tale fortuna le capita di
rado, per il resto, tre, quattro volte al giorno, deve fare un tragitto lungo e
tortuoso arrampicandosi su muri diseguali o attraversando, veloce, un pollaio.
Sulla soglia della casetta degli attrezzi, la gatta madre si ferma un attimo e
si guarda attorno: un’attesa, quieta, che tutto sia tranquillo, che, anche
oggi, nessuno la ostacoli. Poi, passa sopra cassette di legno e sacchi di carta
ed entra nel secchio di plastica blu dove l’indifferenziato batuffolo nero dei
primi giorni si è suddiviso in quattro gattini: uno solo nero, uno nero con una
macchia bianca, uno bianco con varie macchie grigie, uno del tutto bianco. Li
lecca ad uno ad uno e, finite le pulizie, si stende in maniera che i quattro,
chi sopra, chi sotto, possano allattare. Esce dal secchio e si stende sotto una
felce: magra, stanca, tranquilla. Un riposo breve, poi torna all’altra casa o
va in giro a cercare cibo. E’ il suo lavoro di questi giorni, cercare da
mangiare per produrre latte. Una fatica benedetta: i gattini crescono con le
ore, tutti pienotti, hanno occhi vispi, e quando non dormono, giocano tra di
loro, arrampicandosi ormai fin quasi al
bordo del secchio. Non passerà più di qualche giorno che li porterà via.
Oppure, se felicemente ha deciso di adottarci, li vedremo rincorrersi tra i
vasi, nel cortile.
3. Il più forte e grassottello, Teseo, era bianco. Prometeo, il nero,
è stato il primo ad uscire dal secchio. Anche Epimeteo era nero. Il più bello,
il grigio, aveva occhi cerulei da Venere e non poteva che chiamarsi Glaucopis o
Glaucopide. Hanno rallegrato venti giorni della mia estate, soprattutto gli
ultimi dieci. Erano già uno spettacolo semplicemente quando allattavano o
dormivano l’uno intrecciato all’altro, ma una gioia più grande per gli occhi ed
il cuore è stato assistere a tutte le piccole conquiste della crescita, in
particolare ai mille tentativi di scalare le pareti del secchio blu che era la
loro casa. L’aggrapparsi con le zampette davanti, le coscette larghe e le
codine in alto, l’esserci quasi e
ricadere indietro, pancia all’aria e, ancora più spesso, tirarsi giù l’uno con
l’altro: un pizzico d’invidia in un gioco tra fratelli, che poi si carezzavano
vicendevolmente, si mordicchiavano, si rotolavano, aggrovigliandosi in un’unica
morbidezza pelosa. La gatta madre veniva ad allattarli, si fermava a
rinfrescarsi sotto la grande felce, poi andava via a mangiare e riposare nel
cortile d’una casa vicina. L’ammiravamo: dolce, mansueta, umile e regale.
Nonostante la magrezza, li lasciava accoccolare nel suo stomaco, allargando le
zampe- braccia come in un’ansa di mare e li allattava a lungo, dopo averli
leccati uno ad uno e, col muso, li respingeva indietro nel secchio, come fosse
troppo presto per andare via. Ci sembrava così bella, un’immagine dolce della
maternità. Un pomeriggio, uno dei due
neri, dopo vari tentativi di uscire dal secchio risalendone le pareti, è
saltato fuori, proprio saltato, con un gran balzo: e, in quanto iniziatore, è
stato soprannominato Prometeo. E’ finito sotto una cassetta, da cui, visto che
non ce la faceva a tornare indietro, l’abbiamo tirato fuori dopo qualche ora
restituendolo, tremante, ai tre fratellini che si erano rintanati, anche loro
tremanti, in un angolo del secchio. Ci siamo immaginati le discussioni serali
della famigliola: i tre fratellini che accusavano il troppo audace d’averli
lasciati soli, lui che si difendeva, magari con la piccola bugia d’essere solo
caduto, la gatta madre che impartiva ordini, buffetti e carezze. Il giorno
dopo, tutti e quattro i gattini hanno ripreso il loro allenamento all’uscita.
Due mattine dopo, all’alba, ci siamo trovati il secchio rovesciato e i quattro che
sgattaiolavano nella casetta degli attrezzi. Li abbiamo seguiti estasiati,
chiedendoci cosa avrebbe fatto la gatta madre, che all’inizio passava tutta la
notte con loro ma da alcuni giorni, dopo aver fornito cena alla prole, si
faceva rivedere solo per colazione. Quando è arrivata, si è stesa e li ha
allattati con comodo (negli ultimi giorni, essendo il secchio troppo piccolo
per tutti, stava in piedi a mo’ di lupa romana) e molto a lungo. Ero ormai
quasi certa che ci avrebbe lasciati i gattini ancora per qualche giorno, che li
avremmo visti rincorrersi nel cortile, fare a nascondino tra le piante,
afferrarsi per le codine, rotolarsi nello sporco. Meno di un’ora dopo, la gatta
madre li ha portati ad un angolo del cortile, ha afferrato il grigio dalla collottola,
ha risalito il muretto di cinta ed è scomparsa. Andava bene anche così: li
avrebbe portati in un luogo sicuro, dove procedere allo svezzamento e poi
ancora in una casa vicina dove ci sono sempre ciotole piene sparse in cortile o
li avrebbe lasciati liberi di scegliersi una casa diversa dalla sua: liberi
gatti di paese più che di famiglia, come tanti da queste parti. Ho cominciato a
preoccuparmi non vedendola tornare e a non capire più nulla quando, una o due
volte nella mattinata è tornata, è stata qualche minuto, si è rifiutata di
allattare i piccoli, che, appiattiti in uno spazio minimo, si facevano sempre
più piccoli e a vederla già scodinzolavano lieti e ne cercavano le mammelle.
Solo cinque ore dopo, alle tredici, ha preso Teseo e pochi minuti dopo
Epimeteo. Poi è nuovamente è scomparsa. Rimasto solo, il piccolo Prometeo, si è
rintanato in un angolo facendosi ancora più piccolo e debole: per senso di
abbandono oltre che per fame. Alle sedici, dopo aver chiamato al telefono una
veterinaria amica, ci siamo procurati del latte di capra e abbiamo cercato di
nutrirlo con una siringa. Solo alle diciassette e trenta la madre è,
finalmente, tornata a prenderlo. Ho visto dove si è diretta e mi si è stretto
lo stomaco, perché non tutti amano i gatti e per molti è normale fare strage di
gatti neonati. Qualche esangue miagolio non ci tranquillizzato, anzi. Poi, per
tre giorni, nessuna traccia dei gattini. La madre l’abbiamo invece rivista, nel
cortile della casa accanto, mangiare insieme ad altri gatti, dormire tranquilla
e l’abbiamo seguita, con lo sguardo, nel suo andare e venire, attraverso
percorsi inutilmente lunghi e pericolosi, verso il luogo dove, chissà, se la
aspettavano ancora tutti i bellissimi quattro. Quel senso leggero di felicità,
balsamo su dolori ben più seri, che la loro presenza mi aveva regalato, mi si è
raggrumato in cristalli di sale: aguzzi e amari. Tre sere dopo, alcuni squittii
ci hanno fatto pensare – ma ognuno s’è tenuto il pensiero per sé – che i
gattini fossero molto vicini a casa o, chissà, magari fossero tornati da noi.
Il mattino dopo ancora, squittii ancora più ravvicinati ci hanno fatto
affacciare al balcone: la gatta madre, cui non abbiamo neppure provato a dare
un nome proprio, stava conducendo Teseo nel cortile vicino, quello dove i
croccantini vengono sparsi con generosità. L’ha nascosto in una parte riposta e
scura, poi, quieta, si è addormentata su una sedia bianca. Durante il giorno,
non siamo riusciti ad osservare nessun altro trasloco, ma la sera e il mattino
dopo, lei di nuovo dormiva, abbandonata e quieta, sulla sua sedia. Il vento nel
cuore è rimasto salato, ma con una goccia di miele.
4.Solo un ùmano come me, ovvero
un essere molto meno intelligente e sensibile di un gatto, poteva immaginare
che la storia s’avviasse alla lieta, ma forse troppo lineare conclusione, di
cui al post precedente. La mattina dopo, infatti, la gatta dormiva, appagata,
nel cortile vicino, sulla solita sedia bianca con lo schienale a ghirigori, ma
dei gattini nessuna traccia. Spostati da lei per difenderli da pericoli di cui
s’era improvvisamente accorta? Fatti sparire da altre volontà? Oppure? Qualche
ora dopo un miagolio molto vicino ci ha annunciato una novità: Glaucopis era,
di nuovo, da noi: ovvero, la madre l’aveva ricondotto nella casetta negli
attrezzi, nell’intrigo confuso in cui, ben ripulito, c’è ancora il secchio di
plastica azzurra. Di tanto in tanto, lo viene ad allattare – degli altri
figlioletti nulla ci è dato ancora sapere – poi continua il suo girovagare.
Ormai conosciamo molte sue abitudini, ma, certo, non tutti i suoi segreti.
Aspettiamo.
Glaucopis si nasconde per ore,
ogni tanto si affaccia, ci guarda col suo visetto triangolare e buffo e i suoi
occhi da incanto. Talvolta oltrepassa la soglia della sua casetta e s’infila
sotto una pianta del cortile. Stamattina, in un’alba di stelle accese sulle
colline e di luna tramontante sul mare, il suo saluto a chi, con dolore, lo
lasciava, è stato una promessa segreta.
5. Quando, affacciandoti al
balcone, in un tramonto rossastro di oltre mezz’agosto, li vedi tutti e quattro
che allattano, grassottelli e felici, s’espande nell’anima la freschezza del
mare mattutino e le onde leggere ti scendono in candida schiuma da tutti i
pori. Vorresti ballare e cantare e dire a chiunque che sei felice: sono tutti
vivi, sono insieme, sono in una casa: l’epilogo, non più sperato, per una volta
è lieto.
E vorresti carezzarla, questa
gatta, che hai temuto fosse una madre bastarda, e hai un groppo alla gola per
il suo viaggio pericoloso e lungo (cinque giorni sono passati da quando hanno
lasciato il loro secchio azzurro e ben due gliene sono occorsi per l’ultimo
trasporto), la sua immensa fatica – pochissimi metri, trasformati in un’epopea
di salite, arrampicamenti, salti, nascondimenti, un esodo lento e sudato tra cespugli
di erba e spine, sterpi e foglie, rugiada e arsura – per portare, tornando con
la sua piccola carovana da dove s’era mossa da sola, i suoi figlioletti in
salvo.
In tanta, dominante, morte ti
incanta la luce di questo puntino, infinitesimale, di vita.
6. Nella casetta dei conigli, attaccata a quella degli
attrezzi, son nati, da una gatta color bianco-molto-sporco con un solo orecchio
grigio, altri due gattini, uno bianco, l’altro sfumato di bianco, grigio e
marrone. (Avere una casa scelta dai gatti come sala parto e nursery è una vera
consolazione). Glaù – ora che cresce bisognerà chiamarlo con un nome più corto,
Troisi docet – nella casetta dei conigli s’era già trasferito, dopo le
peripezie che qui l’hanno riportato. Quando, dopo lungo e periglioso viaggio,
era arrivato dove, fiduciosamente, mamma-gatta l’aveva condotto, qualcuno deve
averlo gettato, lui e i suoi tre fratelli/sorelle, da qualche parte. Glaù è
l’unico che è riuscito a tornare dov’era nato. Ora che la sua mamma, che per
alcuni giorni è venuta a trovarlo e a nutrirlo, non si vede più, ha adottato
questa nuova madre. Con coscienzioso impegno, allatta insieme ai suoi cuginetti/fratellini
e, quando la nuova gatta-madre non c’è, si occupa dei gattini, dormendo accanto
a loro, le sue zampette curvate a proteggerli. Poi, gioca tra le felci, mangia
quello che gli danno, siano ossa di pollo da spolpare, pizza, o pasta con i talli,
saltella di qua e di là, si nasconde, riappare. E’ selvatico e amichevole,
diffidente e allegro. Ha lo sguardo ammaliante del furbo e dolce malandrino
(poi, magari, si scoprirà che è una gattina): contento di attraversarla tutta,
l’avventura della vita.
7. Ah, il canto di un gatto ad ogni nuova alba…
E, alla fine, è andato via.
Rimasto, prima, senza la sua famiglia naturale, la madre e i
tre fratellini, e poi senza madre e fratellini adottivi, Glaù ha fatto sforzi
terribili – un piccolo eroe della voglia di vivere – per tornare nel cortile
dov’era nato e dove, per primo, aveva mosso i primi passi fuori dal secchio
blu.
Ha trovato un’altra famiglia: nella conigliera. Li trattava
come fossero gatti; loro, lo trattavano come fosse un coniglio. Coi conigli s’è
steso al sole del primo autunno o, meglio, s’è steso sui conigli stesi al sole.
Li lasciava solo due volte al giorno per raggiungere il suo piattino e
affondare il volto nella sua pappa.
Poi, quando ha cominciato a puntare i topi, deve essersi
sentito grande, pronto alla grande avventura nel vasto mondo. E se n’è andato
senza neppure un miagolio di saluto, senza finire il suo pasto di resti di
pesce. Lasciando solitudini che pesano di più senza il cuscino della sua
presenza: recente e incerta, eppure quasi ormai abituale.
Ma, forse, chissà, l’ha urgentissimamente chiamato a Gattonia
il nuovo imperatore dei gatti. E gli ha affidato, lontano, un compito difficile
e segreto: degno dei suoi occhi stupendi, pieni di attese e di interrogativi
che prendono allo stomaco chiunque egli onori del suo sguardo.
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