Per la festa della ripartenza
di Calabria d’Autore, la rassegna ideata da Antonio Calabrò, Marco Mauro e
Marco Strati, anche un Io vorrei, ovvero
una sorta di La Calabria dei desideri.
C’è chi l’ha fatto dal vivo, chi producendo un piccolo
video. Io ho inviato questa notarella.
Vorrei che la Calabria non mi facesse più male al
cuore.
È così dolce la sua aria e nessun luogo al mondo – per
chissà quale fenomeno fisico o perché Morgana, la fata, vi ha intriso di sé
mare e cielo – ha la sua luce
Così belli certi suoi odori, quelli della mia
infanzia: il pane caldo, l’olio di frantoio, i petrali natalizi, la zagara dei
bergamotti, la bianca dolcezza del latte di mandorla.
Incantevoli certi suoi scorci: conche di mare, colline
che s’affacciano come terrazze sull’azzurro, aspre montagne misteriose.
Così umile e forte certo suo passato: gli emigranti
che l’hanno dovuta lasciare perché non c’era posto per loro, i contadini che
riuscivano a farci crescere il grano e gli olivi e le mandorle, le donne che
raccoglievano i gelsomini quando la notte cedeva il passo alla prima alba, i
pescatori che conoscevano i venti dello Stretto.
Così commoventi certi suoi ragazzi e ragazze, del
recente passato e del presente, che hanno studiato tanto, tantissimo, sognando
di poter sì viaggiare per il vasto mondo, ma vivendo e lavorando nella loro
terra: e non l’hanno potuto né possono farlo.
Ma non è tutta la bellezza che si persa che mi fa più
male al cuore.
Quello che più mi pesa è quel senso di impotenza che
sembra attraversarne le ossa e invecchia anche le sue giornate di più giovane
bellezza.
Il ritrarsi di chi non ha mai avuto o ha perso la
speranza che i mali della propria terra possano essere combattuti e vinti. La
rinuncia a fare in prima persona qualcosa, anche una piccola cosa, che dica che
la storia della Calabria non è finita.
Le parole trattenute per non farsi sentire da quelli
che non avrebbero peso alcuno se non gli venisse confermato dai troppi che si
fanno invisibili per non dare né avere fastidi.
La diffusa incapacità di fare gruppo, il restare
ognuno per sé, in una forma di solitudine che non è una virtù. Piuttosto, una
malattia. Che fa male al cuore.
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