venerdì 8 aprile 2022

Stalingrado di Vasilij Grossman

 


«L’ultima ora di Stalingrado, della Stalingrado di prima della guerra, non fu diversa dalle ore e dai giorni che l’avevano preceduta. Qualcuno carreggiava patate, altri facevano la fila per il pane, altri ancora parlavano delle tessere annonarie; al mercato si continuava a barattare e a vendere latte, pane, zucchero grezzo e stivali militari; nelle fabbriche chi era chiamato a lavorare non smetteva di farlo… Coloro che si è soliti definire “gente semplice”, “lavoratori comuni” – la fonditrice, il macchinista della Centrale elettrica, i soldati volontari, gli impiegati, i medici, gli universitari, i bassi ranghi del partito – non sapevano ancora che, di lì a qualche ora, con la stessa semplicità con cui avevano lavorato giorno dopo giorno, molti di loro avrebbero compiuto gesta che le generazioni seguenti avrebbero definito immortali. Questo perché la dedizione alla libertà, la gioia per il proprio lavoro, la fedeltà alla Patria e l’amore materno non sono un’esclusiva degli eroi. E in questo risiede la speranza del genere umano: sono le persone semplici a compiere le grandi imprese.»

Vasilij Grossman Stalingrado, Adelphi, pag. 504

Stalingrado è un libro grandioso, e, certo, non per la mole (848 pagine più la postafazione, contro le 827 della seconda parte, Vita e destino, pubblicato da Adelphi nel 2008): echi tolstoiani in un vivido racconto di decine e decine di persone, con i loro amori, le loro virtù, i loro limiti:  piccole vite nell'impasto della grande storia.

Leggerlo mentre la Russia putiniana agisce nei confronti dell’Ucraina come la Germania nazista nei confronti della Russia sovietica moltiplica il senso del testo, rendendolo dirompente. (Non faceva differenza per loro, ma come tanti eccezionali autori russi, da Gogol a Bulgakov, anche Grossman, peraltro, è nato iin Ucraina.)

In un mondo, quello che è stato il nostro mondo, che precipita, la speranza resta quella che, a fare il proprio dovere, siano in tanti.

 

Nota a margine: Francesca Mannocchi scrive giustamente, oggi, sulla Stampa della necessità di raccogliere testimonianze sulla guerra in atto perché «i ricordi che oggi ossessionano e spaventano devono diventare memoria. Una memoria comune, la loro e la nostra. Per questo dobbiamo ascoltare i superstiti, perché è sulla pelle di chi è rimasto vivo, prima ancora che sui corpi che ogni giorno vengono estratti dalle case di Bucha, che giace la verità di questa guerra.»

 

 

Nessun commento:

Posta un commento