Uscendo dal cimitero, Teresa si ferma qualche istante sul pianoro. Nella luce del primo mattino, il paese appare come un armonioso anfiteatro che, chiuso all’orizzonte da montagne azzurre pennellate di rosa, ha come palco un mare-lago. Comincia a scendere, velocemente, a piedi, rivolgendo mentalmente espressioni di insofferenza al fastidioso abbaiare di cani, che si spolmonano a difendere chissà che – chi andrebbe mai a infastidire case a ridosso dei morti? La strada è una serie di curve tra il verde di ulivi e fichi d’india con, in lontananza, inserti di azzurro. Rallenta. Respira. All’ultima curva, prima della stradina tra casette addossate l’una all’altra che porta nella strada principale dove affaccia la sua, incontra tre donne. Stanno salendo, anche loro a piedi, dai loro morti.
Teresa abbassa la testa come in un cenno di saluto. Non rispondono. Sono
diverse d’altezza; identiche di magrezza e uguale è il colore della pelle, di
olive mature. Una ha i capelli lunghi legati a coda, l’altra corti sopra il bavero
del cappotto. La terza, che ha in mano un mazzo di fiori, porta un cappello che
nasconde i capelli. Tutte e tre hanno gonne scampanate, come usava decenni
prima, e scarpe di pelle con tacco basso. Teresa le conosce solo di vista. A
distanza. Non sa niente delle tre donne, se non il loro modo di disporsi in
chiesa, in tre panche diverse. La più alta, nella terzultima panca, quasi
impettita, con le spalle rigide; la più bassa nella penultima, le spalle curve;
la terza ancora più indietro, ma di lato, sempre
con un cappello in testa, di
lana d’inverno, di cotone d’estate e, in primavera e in autunno, di panno. Mai
le ha viste parlare tra di loro né con altri, mai le ha viste sorridere. Le
pare di ricordare che qualcuno, chissà quando, le ha raccontato che sono
sorelle e vivono insieme. Non si sono mai sposate e si sono mantenute facendo
le ricamatrici fino a quando i corredi con le tovaglie e le lenzuola abbellite
da lunghe ore di ago e filo non sono del tutto decadute di moda, poi si sono
adattate a lavori di rammendo. Hanno un’età imprecisabile, ma più vicina ai
settanta che ai sessanta. Quel qualcuno le aveva anche sussurrato un cognome,
ma i nomi no, non li sapeva.
Teresa si chiede di quante persone del paese conosce nomi e relazioni e lavoro. Poche. Forse, non riesce a completare neppure le dita delle mani. Ha sempre vissuto lì, ma, per studi e lavoro, ha frequentato più la città vicina e, con l’epidemia, esplosa nello stesso mese dell’inizio della sua pensione, il suo riserbo è diventato un quasi eremitaggio. Ripensa gli snodi della sua vita, le circostanze che ne hanno plasmato un carattere fin dalla prima infanzia indirizzato alla solitudine.
Si chiede quanto ha perso in mancate relazioni e accende il meccanismo di autoaccusa di cui è maestra. Accelera di piedi e si ferma con la mente. Ma davvero è estranea al piccolo mondo che la circonda? Non ha un elenco di parole pregresse per definire le tre donne che ha incontrato, non ha accumulato nel tempo informazioni su di loro, come non ha accumulato informazioni su quasi nessuno. Ma ha sempre guardato – per pudore, solo un mezzo sguardo – fermandosi sulla soglia di vite, che non le sono estranee.
Alle tre donne potrebbe dare nomi che calzino meglio di quelli imposti dai genitori riprendendone di certo almeno due dalle nonne. Nelle sue viscere, conosce la fatica e la dignità dei loro giorni, il ruvido sentimento di ultime foglie aggrappate alla pianta, lo scontroso affetto che, dei semi duri dei fichi d’india, rilascia dolcezza e vigore, il paradiso e l’inferno del loro quotidiano vicendevole sostenersi e controllarsi.
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