Mimì
Cafiero non è il libro migliore di Mario La Cava, ma ha un
particolare che me lo rende particolarmente caro: la protagonista è di Pellaro.
Con questo omaggio al mio
quartiere di nascita, mi prendo una pausa dalle recensioni di testi calabresi (a meno che, nel breve, non esca un capolavoro).
«Fra le tante ragazze più
o meno belle, più o meno ricche, la scelta cadde sull’amica di Rosina. Stava
Lina Montevergine appoggiata al balcone della sua casa in Pellaro, tra i
garofani che erano già in piena fioritura, con il corpo snello alquanto
scomposto nella posizione che aveva preso, quando passò in carrozzino Mimì
Cafiero».
Piccolo proprietario di
terreni, Mimì Cafiero vive a Sbarre, insieme a Ciccio, servo di scarsa
intelligenza, «sonnacchioso, triste e fedele come un cane (…) che gli era
fratello di sangue, per essere stato suo padre anche il padre di lui con una
donna di casa, come tutti sapevano e come una certa rassomiglianza nei tratti
dimostrava.»
Passa molto del suo tempo
«al Caffè dell’Avvenire, a Reggio, su una piazza che aveva la vista dello
Stretto» a discutere con veemenza di fatti giudiziari (il nuovo regime gli
sembra troppo duro nei confronti degli uomini di rispetto) soprattutto
col suo «amico abituale Peppino Zuccalà», impiegato al Consorzio, e suo sodale
come appassionato spettatore del varietà e frequentatore assiduo delle artiste:
«donne d’arte (…), donne costose, abituate a spendere molto e a fare
spendere.»: «Eravamo in un tempo molto lontano dal presente, alcuni anni dopo
la fine della prima guerra mondiale, quando la nazione aveva assunto un aspetto
esterno molto ordinato con il governo che era salito al potere. Le apparenze
erano molto apprezzate specialmente per ciò che riguardava la morigeratezza dei
costumi, e uomini giovani come Mimì Cafiero e Peppino Zuccalà si trovavano a
disagio.»
Appena guarito da una
malattia venerea, Mimì decide di sposarsi e sceglie la benestante Lina, già
fidanzata per anni con un cugino: «No, ella non poteva dire di no a Mimì
Cafiero, non solo per fare contenti i genitori, ma per se stessa, per il suo
avvenire di donna che non doveva rinunziare alla vita, solo perché aveva avuto
una delusione. (…) Egli, invece, illuso di essere stato scelto per la simpatia
che aveva ispirato (…) vide nella donna la carne fresca della gioventù e
avrebbe voluto assaporarla come un frutto maturo. Il corpo di lei era elegante
(…) Belle erano le gambe di Lina, e Mimì non sapeva togliere da esse gli occhi.
E i capelli (…) attiravano lo sguardo con i loro ricci naturali, del colore
dell’ebano. Su quella bocca (…) si posavano a volte gli occhi di Mimì, che
lanciavano fiamme di desiderio. Lina le sentiva, pur senza renderlo palese, e
un compiacimento pieno di languore si faceva strada nel suo animo.»
Sebbene turbata dalla
nuova casa solitaria, ben diversa da quella «infiorata di Pellaro» e snervata
dalla presenza di Ciccio, Lina apprezza «la sua nuova condizione di sposa»:
«Fare quello che comunemente si dice sia il dovere di moglie nei rapporti col
marito, fu l’occupazione principale di Lina fin dal primo momento. (…) Lina era
lusingata di tanto furore, e la notte ansiosamente aspettata, quando si sarebbe
messa a letto a fianco del marito, era il coronamento naturale e pur misterioso
dei focosi preparativi del giorno.»
Ma la sua richiesta di
svaghi, di passeggiate sul Corso reggino, di bagni al Lido infastidiscono Mimì
che presto riprende, insieme a quelli coniugali, anche «i piaceri della sua
precedente vita da scapolo».
La recrudescenza della
malattia venerea porta Mimì alla cecità, condizione che aggrava la sua già
serpeggiante gelosia verso una temuta relazione tra Lina e Peppino. Per questo,
armando al suo posto il fido Ciccio, fa uccidere Peppino. Dopo una breve
carcerazione, Mimì torna nella casa di Sbarre ormai abbandonata sia da Lina che
da Ciccio, trovando presto una fine drammatica: «Sentì una smania di incontrare
persone, di parlare, di muoversi. Uscì di casa, aiutandosi con un bastoncino
ferrato (…) Non passava ora più alcuno nella strada, le Sbarre sembravano morte.
Un’aria pura proveniva dal mare in silenzio. Mimì si sentì attratto in quella
direzione, senza ricordare più che faceva la strada del mare.»
Primo romanzo scritto da Mario La Cava tra l’ottobre 1947 e il luglio 1948, Mimì Cafiero, ripubblicato da Rubbettino nel 2007, è un testo di impronta neorealista (trae spunto da un fatto di cronaca, noto come “il delitto del cieco”), dal linguaggio asciutto e dai dialoghi veloci, nonché dalla sensibile indagine psicologica dei personaggi.
Primo romanzo scritto da Mario La Cava tra l’ottobre 1947 e il luglio 1948, Mimì Cafiero, ripubblicato da Rubbettino nel 2007, è un testo di impronta neorealista (trae spunto da un fatto di cronaca, noto come “il delitto del cieco”), dal linguaggio asciutto e dai dialoghi veloci, nonché dalla sensibile indagine psicologica dei personaggi.
Anche se il paesaggio
appare qui e là nella sua bellezza, tutta la vicenda sembra immersa in una
cappa grigia. Ne emerge una Reggio stranamente livida, come sotto effetto di
un’eclissi che oscura colori e congela odori mediterranei. Ancora più intensa
la chiusura dei protagonisti in un piccolo mondo. Una limitazione di orizzonti
legata non alla provincia che, per La Cava – lo si vede nell’insieme
delle sue opere (il suo capolavoro resta I fatti di Casignana) – è,
letterariamente, tutt’altro che provinciale, ma alla fase storica dell’incipiente
fascismo e ad ceto sociale vacuo.
Il protagonista è certo Mimì
Cafiero, con la sua ossessione sessuale, la sua volontà di possesso, il
suo culto d’una supposta virilità, la sua povertà emozionale e sentimentale –
«Per questo mi sono sposato: per comandare in casa mia.», «Ti sei sposata a me,
e devi dare conto a me! Per il mio comodo ti ho sposata.» – ma la vicenda è
anche quella di un matrimonio «senza altri piaceri e soddisfazioni che quelli
comuni del senso.»
Una trama che cresce via
via con la tensione di un giallo per un libro che descrive un tempo lontano, ma
può parlare al nostro.
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