Quand’ero bambina, il 4 novembre non si andava a
scuola. Il ponte dei morti si allungava per la “festa della Vittoria”. Sul
sussidiario c’era scritto che, per l’Italia, la prima guerra mondiale era stata
la “quarta guerra d’indipendenza”. In famiglia, si parlava della più recente
seconda guerra mondiale, che aveva toccato tutti, era arrivata nel nostro mare
e nelle nostre campagne e nelle nostra case più che della precedente che aveva
portato i nonni su montagne lontane. Della prima guerra, i vecchi del paese
ricordavano soprattutto le lettere e il re. Le lettere che solo pochi
riuscivano a scrivere e a leggere. Mio nonno paterno (che a scuola non era
andato ma, bambino, pascolando le capre, aveva appreso qualche rudimento da una
bambina poi diventata mia nonna materna, che aveva completato la seconda
elementare) era stato allontanato dalla prima linea per i postumi del vicino
scoppio di una granata, era diventato postino e, in quanto tale, anche lettore
e scrivano per i commilitoni. (Sarebbe
poi stato nominato, lui ragazzo del 99, cavaliere di Vittorio Veneto). Il re
perché, vero o immaginato, in molti giuravano d’averlo visto al fronte, che
stringeva le mani ai soldati. (Immagine che, insieme a quella della regina
Elena che si stringeva al petto i bambini orfani del terremoto dell’otto, gli
aveva dato il senso, per la prima volta nella storia, d’essere tutti italiani. (Tanto che, due decenni
dopo lo zio Sciau, contadino, che aveva sentito la notizia alla radio di nipote
tornato dall’America, attraversò la rua correndo per annunciare al cugino,
anche lui contadino: “Giovanni, Giovanni è nato il principino…”, felice come si
trattasse di una nascita in casa)
Da giovane, ho frequentato per un bel po’ monsignor
Agostino, e, quindi, la chiesa di cui era parroco: San Giorgio al Corso,
altrimenti chiamata Tempio della Vittoria.
Nel portale e ai suoi lati, ci sono dei bassorilievi che raffigurano alcuni
momenti della prima guerra mondiale e vi sono impressi alcuni nomi di località
dove sono state combattute importanti battaglie (Monte Nero, Carso,
Bligny, Montello, Isonzo, Bainsizza, Monte Grappa, Piave). Mi ha sempre dato
una sensazione particolare varcare quel portone e me la continua a dare anche
ora che ci passo, di sfuggita, non più di due o tre volte l’anno: come
obbligasse ad un atteggiamento austero, consapevole
dell’estrema sofferenza della storia.
Non amo la retorica e neppure l’antiretorica delle
celebrazioni. Ma mi è sembrato giusto, ieri, passare in rassegna almeno qualche
scheggia di memoria personale sulla prima grande tragedia del Novecento,
vedendo un film insieme crudo e onirico, torneranno
i prati di Ermanno Olmi.
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