In Calabria, un ragazzo diciassettenne uccide la
madre (adottiva) e si tatua sul braccio “Ti voglio bene mamma”. La vicenda mi
colpisce molto perché si aggiunge a tante storie di adozione finite decisamente
male con cui, in qualche modo, sono venuta a contatto in questi ultimi anni.
Poiché guardo all’adozione (al contrario dell’utero
in affitto et similia) con grande stima e simpatia, mi è piaciuto molto leggere
Il mare non chiude mai. Adottare tre
bambini e restare allegri di una giornalista che cela la sua identità
dietro lo pseudonimo di Amaltea.
E’ da poco in libreria l’ultimo giallo di Mimmo
Gangemi La verità del giudice meschino. Ma
è recentissima la pubblicazione del suo precedente romanzo, L’acre odore di aglio, per il quale ho
scritto su Zoomsud questa recensione:
È un romanzo.
Bello. Intenso. Potente. Percorso da quel senso di dignità e, insieme, di
tragicità dell’umana esistenza che spesso impregna i romanzi che restano. Un
acre odore di aglio di Mimmo Gangemi, recentemente edito da Bompiani, è uno
dei pochi (potenziali) classici scritti in questi ultimi anni.
Ed è,
insieme, un libro di storia. Nel senso che è uno dei pochissimi romanzi
(saranno quattro, cinque in tutto) che danno il senso profondo di che cosa è
stata la Calabria tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento.
Quando la
sua storia è stata fatta, in larga parte, da contadini che, con fatica enorme,
hanno dissodato la terra, sottraendo al seccagno terrazza dopo terrazza da
coltivare, ripartendo dopo ogni brutta annata dell’olio o dopo ogni
piccola e grande catastrofe, dal terremoto all’alluvione.
Contadini
che hanno tenacemente resistito ad ogni evento contrario e hanno provato a
costruire un po’ di futuro, per esempio iniziando, appena possibile, a far
studiare qualche figlio ma che non sono però riusciti a raggiungere il
resto della storia nazionale. Come se ad ogni passo avanti, qualcosa di
superiore alle loro forze li avesse costretti a due passi indietro.
La
pesantezza della storia e la fragilità dell’ambiente naturale e, a specchio, la
fragilità della storia e la durezza dell’ambiente naturale sono il respiro,
l’aria, l’acre odore di aglio in cui restano contratte vite fatte di
lavoro, di sofferenza e di un senso dell’onore che ruota tutto intorno alle
donne di casa, che, subordinate prima al padre e poi al marito, devono essere servizievoli,
di poche e rette parole come si conveniva alle femmine.
I fatti
della storia – l’arrivo dei Mille, il terremoto del 1908, la grande guerra, il
fascismo, la seconda guerra mondiale – pur intersecandosi, spesso in maniera
violenta e duratura, con le loro vite, vengono dignitosamente sopportati come
un dato dell’ineluttabile destino.
Nelle
vicende di Cola e della sua famiglia, dei suoi genitori, dei suoi figli e dei
suoi nipoti, molti calabresi nati negli anni cinquanta e precedenti possono
facilmente riconoscersi, con grande emozione, ritrovando pezzi della propria
storia familiare o, comunque, persone e storie che hanno ben conosciuto da
bambini.
Tutti
possono vedere, attraverso la chiarezza che è virtù propria della grande
letteratura, quali sono le vene profonde cui attingono le radici più recenti
della Calabria.
La
dignità contadina e popolare nell’affrontare la vita con coraggio a mani
nude pur senza una classe dirigente degna di questo nome e la forza degli
affetti familiari, il fare famiglia che stempera e supera dall’interno
gli stereotipi dei ruoli pur ampiamente accettati come indiscutibili (con la
donna subordinata all’uomo). E il tarlo che prova a svuotare coraggio e
intraprendenza ripetendo che per noi non è prevista nessuna vittoria: che,
comunque, qualcosa, anche nei pressi del traguardo, ci riporterà indietro.
Questo è il mio intervento alla presentazione, qualche settimana fa, del libro di Angela Procaccini D:
Le sette donne, la bambina, le ragazze, le
adulte, protagoniste della prima raccolta di racconti della poetessa Angela
Procaccini sono state tutte, in qualche modo, ferite – qualcuna letteralmente a
morte – da uomini che hanno risposto con indifferenza, viltà, superficialità al
loro insopprimibile bisogno d’amore.
Un bisogno che aveva portato ciascuna di loro a
fidarsi, ad affidare la propria vita a sguardi che prima le hanno illuse di
vita, quasi fossero il sole che fa sbocciare i fiori a primavera e poi se ne
sono allontanati, facendo entrare Vittoria, Liliana, Khadija e le altre nel
freddo-buio di un’eclissi senza confini.
Se fosse solo così – pur nella bellezza formale,
nello stile di matura pacatezza, nelle parole che hanno la forza nuova della
semplicità e della verità: a me hanno richiamato la Grazia Livi de L’approdo
invisibile – i racconti di Angela non avrebbero la caratteristica di unicità
che invece hanno. Perché altre volte la narrativa contemporanea, ma anche forme
più popolari di comunicazione quali fiction e telenovele hanno affrontato il tema
della bambina stuprata in famiglia o della ragazza che abortisce per non dover
rinunciare al futuro che aveva sognato.
Ciò che fa la differenza nei racconti di Angela
Procaccini è il fatto che queste donne vengono colte in un momento preciso,
aurorale: quello in cui arriva a compimento e si disvela a loro stesse il
lungo, doloroso, silenzioso processo attraverso cui hanno impedito a loro
stesse di trasformare la loro ferita nella loro vita.
Perché queste donne hanno fatto sì che il male –
la spada che le ha spezzate, il fucile che le ha crivellate, la bomba
deflagrata nelle loro viscere – pur rimanendo per sempre inciso nella loro
carne e nel loro sangue – non diventasse, per sempre, l’ultima parola della
loro vita.
Le donne di Angela, infatti, hanno impedito al
veleno che è stato loro iniettato di occupare ogni spazio del sé, ogni loro
energia. Non sono diventate, come pure sarebbe stato comprensibile, esseri
schiumanti rabbia e odio, indifferenza e disprezzo per ciò che è buono e bello;
al contrario, hanno aperto il loro cuore e la loro intelligenza a nuova
accoglienza e cura di ciò che, nella vita, è umano e, quindi, costruisce ancora
vita e futuro.
La memoria – che mantiene sempre presente il
momento che ha scisso in due la loro esistenza – non si è fossilizzata nello
schianto del tradimento, dell’umiliazione, della ferita, ma è diventata
l’invisibile filo del ritrovamento del nucleo più forte, intimo, immodificabile
di se stesse. Attraversando e riattraversando la memoria del momento peggiore
della loro vita, le donne di Angela Procaccini ritrovano tutte, insieme, il
loro essere bambine e il loro essere madri. Ovvero, da una parte, la verginale
freschezza della bambina capace di ricominciare, nonostante tutto, come se non
tutto fosse perduto e, dall’altra, la capacità di cura, di attenzione, di
abbraccio tenero e devoto della madre.
In qualche modo, queste donne, sono figlie e
madri di se stesse: si ri-partoriscono, rinascendo non in virtù di una forza,
di un aiuto, di una mano che viene dall’esterno, di una scelta religiosa o di
una decisione ideologica, ma ri-trovando in se stesse, nel più profondo del
loro essere donne, le ragioni e la volontà del vivere.
Ci sono in Flavia, in Rosangela e nelle altre
donne di D – nella loro dolcezza e nella loro forza, nel loro dolore e nella
mutilazione del cuore che si fa servizio agli altri – frammenti della donna
Angela Procaccini.
C’è, nelle protagoniste dei suoi racconti quella
disciplina del cuore – fatta di tante “d”: d come donna, dolore, dolcezza, ma
anche come decisione, decantazione dell’esperienza, declinazione dell’anima, d
come dignità durevolezza e dedizione – che le ha consentito di riversare su
centinaia e centinaia di giovani l’amore che non ha potuto esprimere alla sua
Simonetta.
La ferita resta. Il dolore non si può
banalizzare, non si può fingere che il tempo lo annulli e neppure lo
diminuisca. Ma il dolore può essere masticato e rimasticato fino a trasformalo
in sangue di vita. Non è necessario essere felici per costruire felicità per
gli altri e, a forza di costruire l’altrui felicità, si può trovare la propria
misura, il proprio equilibrio nel riconoscere che si è rimaste, nonostante le
sberle e i pugni della vita, comunque in piedi e in cammino.
In crisi di astinenza da serie tv, mi hanno recentemente
fatto un po’ di compagnia i tre volumi
di House of cards di Michael Dobbs
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