La fortezza
di Jennifer Egan è un gran bel romanzo sull’immaginazione, la fantasia, la
rappresentazione (mentale e dei media), e sul loro rapporto con la realtà.
Meglio ancora, riguarda il rapporto tra la realtà dell’immaginazione e l’irrealtà
dell’esperienza insieme all’irrealtà della prima e la realtà della seconda. Insomma,
un libro, in cui la trama è un continuo passaggio di specchi, dove è chiaro che
la verità si trova (se si riesce a farlo e, soprattutto, se c’è) a livelli
sempre più profondi e, quindi, più lontani, dalla superficie sensibile.
Ambientato in un castello medioevale in
ristrutturazione e una prigione, il libro si costruisce, via via, come la
scrittura di una scrittura di una scrittura, rivelando solo nelle ultime pagine
l’interconnessione tra le due fortezze.
Al centro del libro (anche se recensioni che ho letto dicono altro e danno particolare attenzione a Danny e al cugino), c’è infatti la scrittura e il
rapporto che si instaura, in carcere, tra Holly, insegnante, del corso di scrittura,
con un passato di tossicodipendenza e il detenuto Ray, colpevole di omicidio.
C’è uno scontro tra i due, quando Ray, alla
seconda lezione, scrive un racconto su un tipo che si tromba l’insegnante
del corso di scrittura in uno sgabuzzino, finché la porta non si apre di colpo
e…e l’insegnante gli indica la porta:
La porta è lì, mi dice Holly, e la indica.
Perché non ti alzi e te ne vai?
Non mi muovo. Potrei anche uscire, ma poi
dovrei restare in corridoio ad aspettare.
E quel cancello? Adesso Holly sta puntando il
dito fuori dalla finestra. Di sera il cancello è illuminato: i giri di filo
spinato in cima, la torretta con il cecchino dentro. E le porte della tua
cella?, mi chiede. O le porte del blocco? O le porte delle docce? O le porte
della mensa, o le porte dell’ingresso per i visitatori? Quanto spesso vi capita
di toccare la maniglia di una porta, signori? Vi sto chiedendo questo.
L’ho capito appena l’ho vista, che Holly non
aveva mai insegnato in carcere. Non per l’aspetto fisico: non è una ragazzina,
e si vede che non ha avuto una vita facile. Ma la gente che insegna in carcere
ha attorno una corazza che a Holly manca. Dalla voce percepisco il suo nervosismo,
è come se si fosse preparata ogni parola di questo discorso sulle porte. Ma la
cosa assurda è che ha ragione. L’ultima volta che sono uscito di galera,
davanti alle porte mi fermavo e aspettavo che qualcuno le aprisse. Ci si
dimentica che effetto fa aprirle da soli.
Holly dice: Il mio compito è mostrarvi una
porta che potete aprire voi. E si batte le mani in cima alla testa. E’ una
porta che vi conduce dovunque vogliate andare, dice. Io sto qui per farvi fare
questo, e se a te non interessa per favore risparmiati di venire, perché il
finanziamento per questo corso copre solo dieci allievi, e ci vediamo solo una
volta alla settimana, e non ho intenzione di far perdere tempo a tutti con
delle prove di forza da deficienti.
Si avvicina al mio banco e mi guarda. Io alzo
gli occhi e guardo lei. Vorrei dirle: Ne ho sentiti di pipponi motivazionali
cretini in vita mia, ma questo li batte tutti. La porta che abbiamo in testa,
ma per favore. E però, mentre parlava, ho avvertito un piccolo scoppio dentro
il petto. [...] quando Holly parlò di quella porta che abbiamo in
testa, mi successe qualcosa. La porta non era vera, non c’era nessuna porta
nella realtà, era solo linguaggio figurato. Cioè era una parola. Un suono.
Porta. Ma io la aprii e uscii fuori.
Nessun commento:
Posta un commento