Non è del tutto originale
il Cristo eretico di Amèlie Nothomb. Sull’amore di Gesù per Maria Maddalena,
per esempio, Martin Scorsese ci ha costruito, tanti anni fa, La tentazione di Cristo.
Eppure le poco più di
cento pagine di Sete – non una
parola, un aggettivo più del necessario – hanno una forza rara. Dall’attacco
ironico – con la sfilza dei miracolati che diventano accusatori – al dramma
dell’ultima notte, al dolore della crocifissione alla “presenza” successiva
alla morte, è una meditazione, sospesa tra l’urlo e il silenzio, del “più
incarnato tra gli uomini” sulla vita, la fragilità e la bellezza dell’umano, l’importanza
del corpo, le contraddizioni della religione, la “sete” che mai ci abbandona:
«Ciò
che sentite quando state morendo di sete, coltivatelo. Lo slancio mistico non è
che questo. E non è una metafora. La fine della fame si chiama sazietà. La fine
della stanchezza si chiama riposo. La fine della sofferenza si chiama conforto.
La fine della sete non ha nome. La lingua, nella sua saggezza, ha capito che
non è possibile creare il contrario della sete. Ci si può dissetare, ma la
parola dissetamento non esiste. Ci sono uomini che pensano di non essere dei
mistici. Sbagliano. Basta essere stati sul punto di morire di sete, anche solo
per un attimo, per avere pieno diritto a questo appellativo. L’istante
ineffabile in cui l’assetato porta alle labbra un bicchiere d’acqua è Dio.»
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