Settimana prima di Pasqua, tanti anni fa.
Insieme al vicedirettore di Nisida, accompagno alla Stazione Centrale un ragazzo
pugliese che, dopo qualche anno in Istituto, aveva avuto il suo primo permesso
di pochissimi giorni per tornare a casa. Arrivati a piazza Garibaldi, cominciò
ad annaspare, gli girava la testa. Sebbene l’aria di Nisida fosse ben più
pulita di quella della Stazione, avvertiva un eccesso di ossigeno che gli
sembrava non poter reggere: come di una repentina scalata in montagna che lascia
storditi.
Stamattina, dopo una settimana di casa
totale (sono per la spesa molto oculata), sono scesa al supermercato, che è
vicinissimo casa, pochi passi. Persone in fila a ragguardevole distanza,
ingresso uno la volta. Mi sembrava di essere tra la folla e ho provato un senso
di smarrimento: troppo spazio, troppa aria.
Oggi, facciamo tutti in qualche modo l’esperienza
della costrizione, della libertà limitata, della detenzione, per quanto
domiciliare.
Un’occasione per ripensare anche il
carcere (magari, secondo il modello Nisida)
E un’occasione (ne avremmo potuto fare a
meno, lo sapevamo, ma adesso non è chiaro, è accecante) per pensare alla
crescita dei ragazzi che non hanno sufficienti condizioni
sociali-culturali-economiche.
Quelli, per esempio, con i quali la
didattica a distanza può fare poco. Perché non hanno i computer, le stampanti.
E, soprattutto, non hanno una famiglia che può reggerne lo sforzo.
Quelli che, dopo questa esperienza, si
rischia di “perdere” ancora di più: ancora più indietro con la scuola, ancora
più “gettati per strada”, ancora più a rischio di finire in carcere.
È un problema grosso, insieme a tanti
altri problemi.
In tempi di mai tanto tempo libero, è bene pensarci.
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