mercoledì 18 marzo 2020

Cronache da un'epidemia 8





Settimana prima di Pasqua, tanti anni fa. Insieme al vicedirettore di Nisida, accompagno alla Stazione Centrale un ragazzo pugliese che, dopo qualche anno in Istituto, aveva avuto il suo primo permesso di pochissimi giorni per tornare a casa. Arrivati a piazza Garibaldi, cominciò ad annaspare, gli girava la testa. Sebbene l’aria di Nisida fosse ben più pulita di quella della Stazione, avvertiva un eccesso di ossigeno che gli sembrava non poter reggere: come di una repentina scalata in montagna che lascia storditi.

Stamattina, dopo una settimana di casa totale (sono per la spesa molto oculata), sono scesa al supermercato, che è vicinissimo casa, pochi passi. Persone in fila a ragguardevole distanza, ingresso uno la volta. Mi sembrava di essere tra la folla e ho provato un senso di smarrimento: troppo spazio, troppa aria.

Oggi, facciamo tutti in qualche modo l’esperienza della costrizione, della libertà limitata, della detenzione, per quanto domiciliare.

Un’occasione per ripensare anche il carcere (magari, secondo il modello Nisida)

E un’occasione (ne avremmo potuto fare a meno, lo sapevamo, ma adesso non è chiaro, è accecante) per pensare alla crescita dei ragazzi che non hanno sufficienti condizioni sociali-culturali-economiche.

Quelli, per esempio, con i quali la didattica a distanza può fare poco. Perché non hanno i computer, le stampanti. E, soprattutto, non hanno una famiglia che può reggerne lo sforzo.

Quelli che, dopo questa esperienza, si rischia di “perdere” ancora di più: ancora più indietro con la scuola, ancora più “gettati per strada”, ancora più a rischio di finire in carcere.

È un problema grosso, insieme a tanti altri problemi.

In tempi di mai tanto tempo libero, è bene pensarci.

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