martedì 29 dicembre 2020

Buon 2021 alle ragazze e ai ragazzi di Nisida

 

Nisida, rosa. Foto del direttore, Gianluca Guida

Le Beatitudini di Nisida

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Io sono cretino. Di tutti i guai che ho, questo è il più grosso, quello che mi fa più rabbia. Con gli altri, faccio lo spaccone, fingo di essere uno che la vita gli piace giocarsela e, comunque vada, vince. Ma dentro il cuore so che ho buttato via la gioventù. Mi sono sentito padrone di notti in cui ho fatto paura alla gente, ma niente mi è rimasto. I soldi, si. Con tutti quelli che si sta mangiando l’avvocato, me ne restano altri, nascosti in un posto sicuro. Ma i soldi non ti fanno ricco. Lo so, anche quando giuro il contrario. È che mi vergogno a dire che cambierei tutti i soldi che nella vita ho rubato e perso per un abbraccio, forte, di mio padre.

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Rido. Sempre. Anche dopo aver ammazzato la vecchia che si teneva stretta la sua borsa, ho continuato a ridere. Perché, da quel momento, mi è venuto come un tremito che mi fa muovere i muscoli della faccia e mi fa nascere dalla gola un rumore come di riso. La verità è che mi vergogno troppo. So che tutti, anche quelli che non dicono niente, mi schifano. Pure io mi schifo. Non piangerei davanti a nessuno, sono troppo grande per le lacrime. Ma quando sono solo vorrei piangere: per quella povera disgraziata – volevo la sua pensione, non la sua vita – e anche per me. Ma le lacrime non mi vengono: chi potrebbe perdonarmi? Io, di sicuro, no.

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.

Da quando mi ricordo, ho litigato sempre. Di botte ne ho date e ricevute. Di risse ne ho fatte tante. Non sopporto che qualcuno mi guardi, mi sale l’ansia. È pure peggio se qualcuno mi guarda la fidanzata. Il fatto è che dicono che sono un ladro, ma, a me, m’hanno rubato tutto. Mio padre se lo sono portato via i carabinieri, mia madre me l’ha tolta il cancro, mio fratello grande l’hanno sparato e il più piccolo l’hanno messo in collegio. Io una cosa, non so com’è: poter stare tranquillo, mettere la testa sul cuscino e dormire senza sogni. Certe volte, guardo il mare, quand’è calmo. E penso che così vorrei stare, sempre.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Mi hanno mandato in galera per una rapina che non ho fatto. E non mi hanno accusato per tre che, invece, ho fatto e ci ho pure ricavato non c’è male. Sono strani i giudici che non ascoltano: loro a dire che quello col cappuccio verde ero io; io a dirgli che, una tuta così, non me la metterei neppure morto. È vero che sto pagando per una e dovrei pagare per tre. I compagni dicono che sono fortunato. In fondo ci sto guadagnando. Ma ‘sta cosa mi sta esaurendo: a finale, preferirei stare in galera per quello che ho fatto, non per quello che non ho fatto. Neppure a scuola, hanno mai azzeccato un voto. Se copiavo, mi davano pure sette. Se provavo a studiare, la sufficienza non la prendevo mai. Nessuno mi hai visto, davvero.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Ogni tanto arriva qualcuno innocente. Non che dice di essere innocente. Proprio, non ha fatto niente. Mai. All’inizio, pensavo: “Questo non è neppure un pesce di cannella; è un disgraziato” E guardavo chi aveva ucciso, magari più d’una volta, col rispetto che si deve a chi è più forte di te. Poi ho imparato che, più o meno buoni o cattivi, qui siamo tutti disgraziati. E, quando si è disgraziati uguale, non si possono fare tante distinzioni. Se a te va bene e a me no, ci resto male. E pure se a me va bene e a te no, tu ci resti male. “Io” e “tu” sono parole fredde, che diventano muri di ghiaccio. Che poi è ridicolo in questo luogo di mare. L’unica è dire “noi”, come facciamo io e fratima-cugino. Se ci si guarda con occhi buoni anche quando si litiga, è come stare sempre al sole.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Sono vissuto scappando. Sempre. Dalla polizia. Dalla scuola. Dall’oratorio. Dalla mia famiglia e dai miei amici. Pure da me stesso. Non voglio che nessuno mi veda come sono. Perché lo so che sono sbagliato, difettoso. L’unico da cui non mi nascondo è Dio. Tanto Lui lo sa come sono. Sa quello che faccio e quello che penso: che sono cose che so pure io. Ma sa pure perché lo faccio e perché lo penso: cose che, invece, io non so. Non sopporto i tanti che di me non sanno niente e vogliono darmi ordini su quello che devo pensare e fare, e giudicano e decidono punizioni per questo o quest’altro. Dio, che sa, non sta lì a giudicare e punire. Forse, neppure a premiare, che è l’altra faccia del punire. Sta lì, semplicemente. E, forse, sta anche qui. Nel fondo del cuore.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

La guerra la conosco bene. Nel mio quartiere c’è battaglia ogni giorno. La mia famiglia combatte contro un’altra da anni. Pure i film di guerra sono gli unici che riesco a vedere senza addormentarmi. Le armi, il sangue che scorre mi fanno battere il cuore. Ho sempre sognato d’essere un capo, uno che ordina ai sottoposti come un generale ai soldati. Ma sempre un soldato sono rimasto e il capo lo faccio solo nella mia testa. Nella mia mente la guerra infuria, sempre. E, quando è arrivato in carcere, uno della famiglia rivale, ho pensato che era il momento della vendetta: finalmente. L’ha pensato anche lui: gliel’ho letto negli occhi. E non mi è venuta paura, anzi. Però m’è sceso addosso un sentimento che non conosco. E gli ho mandato a dire: “Lasciamo perdere”. E anche lui ha risposto: “Lasciamo perdere”.

Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Quelli che rubano si prendono più anni di carcere di chi uccide. E se hai un certo cognome ti prendi di più che se hai un cognome che nessuno conosce. Dicono che non capisco niente, che non mi adeguo a tutti i codicilli del codice. A me, però, tutta la giustizia sembra ingiusta. Non è che non voglio pagare. Ho sbagliato e pago. Sono un uomo, io. E gli uomini si prendono la responsabilità di quello che fanno. Però. A essere giusti, se su un piatto della bilancia si mette quello che ho fatto, sull’altro bisognerebbe mettere quello che non ho avuto. Pare che, i bambini, dalle nostre parti, abbiano baci e carezze e giochi e tante persone che si occupano di rendergli la vita più bella. A me non è capitato. Ed è un vuoto che mi urla dentro.

 

Ho scritto questi appunti, su input del cappellano dell’Istituto, don Gennaro Pagano, qualche settimana fa, per un progetto che lui ha a cuore e che, certamente, porterà a termine. 

Vorrei fossero, intanto, un augurio, per il 2021, di ogni bene per i ragazzi di Nisida: quelli che ci sono dentro adesso, tutti quelli che ho conosciuto e, soprattutto, quelli che, usciti dalla piccola isola, si trovano ad affrontare, troppo soli, le difficoltà del reinserimento sociale, difficoltà che l'epidemia in corso rende più pesanti.

lunedì 28 dicembre 2020

Piccola Cenerentola: appunti su una telenovela



Nessuna trasmissione sul covid e alcune di carattere culturale. Un certo uso di Raiplay. Molti film. Qualche serie. Negli ultimi mesi la ghigliottina, grazie soprattutto al tifo per Massimo Cannoletta. È quello che ho visto in questi mesi in tv. E una telenovela e mezzo. La prima solo per fare compagnia a mia madre (le serie di lunghezza “stagionale” mi sembrano particolarmente utili a “accompagnare” le giornate lunghe di persone anziane e, magari, sole). La seconda, Piccola Cenerentola, attualmente in programmazione su Tv 2000, fin dalla prima puntata mi ha incuriosito. Si tratta di una produzione “vecchia”. In Italia è stata trasmessa per la prima volta nel 1990 e le 150 puntate sono tutte su Youtube. È tratta da Povera diavola della “madre delle telenovele sudamericane” Delia Fiallo che, in edizione italiana, non pare esserci.

La vicenda è concentrata in poco più di un anno. Andrea Mejía Gomez scopre, per caso, durante la festa per il suo cinquantesimo compleanno di essere molto malato. È un uomo ricco e potente, possiede una casa editrice affermata, ha avuto molte donne, l’ultima delle quali, Simona, è la caporedattrice del suo giornale di punta. Affranto dalla notizia del tutto inattesa, si aggira per la città finendo sugli spalti di un campo sportivo di periferia. Viene sottratto ai suoi pensieri da una ragazza che vende il caffè. Monica Morelli è molto diversa dalle donne che gli girano intorno. È semplice fino all’ingenuità, ma mostra una vitalità che lo conquista. In pochi giorni, si passa dalla conoscenza casuale al matrimonio e ad un viaggio di nozze da sogno in Italia, che dura tre mesi. Il giorno in cui i due tornano a Caracas, Andrea muore e Monica si ritrova coerede insieme ad Andrea j., il figlio del defunto nato, trentatré anni prima da una relazione che lo stesso aveva avuto con Irma, cameriera in casa sua, subito scacciata da casa dalla padrona, donna Amelia. Appena maggiorenne, Andrea aveva riconosciuto il bambino, ma non aveva sposato la donna: Andrea j. Era, per questo, cresciuto nell’odio verso il padre e aspettando la sua morte per vendicarsi dell’intera famiglia. Il testamento impone che i due eredi vivano nella stessa casa e si occupino insieme della casa editrice. La cosa non è accettabile da Amelia, che si continua a sentirsi la reale padrona di tutto, compresa la vita dei suoi figli: Laura e Gloria, che domina totalmente e Flavio, scioperato e donnaiolo. Gloria è una zitella infelice; ancora più infelice Laura, sposata a Diego, impostole dalla madre che ne apprezza le doti di (ipocrita) moralità. La casa è enorme, ma si vedono solo due persone di servizio: Mariuccia, una sorta di governante, molto attenta a tutti e la cameriera Alina (Anche nella casa in cui si trasferisce la famiglia Mejìa Gomez costretta a lasciare la villa agli eredi c’è una sola cameriera, amante di Flavio). Andrea e Monica si attraggono ma, proprio per questo, si sfuggono e si contrastano. Andrea è dominato dalla madre, Irma, che non ha mai superato il trauma di non essere stata sposata dall’uomo che ha amato e che l’ha tradita definitivamente sposando Monica e non riesce a sottrarsi all’influenza di Simona, senza la quale non saprebbe condurre la casa editrice. Qualcuno – che poi si scoprirà essere Diego – cerca, con la complicità di altre persone, tra cui un ex amante di Andrea senior, di provocare la morte dei due eredi. Il killer sbaglia e uccide altre persone. Dopo il rapimento di Andrea j. – dietro cui c’è anche, sebbene involontariamente la sua segretaria; rapimento risolto da Monica – i due, separatamente, si prendono qualche giorno di vacanza. Si ritrovano, inaspettatamente nello stesso paesino dove si sposano segretamente. Sanno che la loro relazione non è accettabile da nessuno: dai genitori di Monica (lui, un italiano buono, lei una dalla parlantina inarrestabile); dall’intera famiglia Mejìa Gomez, da Simona e, soprattutto, dalla madre di Andrea che sempre più si addentra in una paranoia contro Monica. Quando Monica comincia ad aspettare un bambino, Andrea vorrebbe che abortisse perché la madre, che sembra stare molto male, non reggerebbe la situazione. Monica, attaccata da tutti, impazzisce e viene ricoverata in una casa di cura. Al lieto fine, al ritorno insieme di Andrea e Monica col loro bambino si arriva attraverso una serie di tappe dolorose che portano anche a non pochi cambiamenti nella famiglia Mejìa Gomez: Laura diventa l’amante di Del Vario, ex amministratore della casa editrice e finisce in galera con l’accusa di aver ucciso il marito; Gloria si getta tra le braccia di un semidelinquente prima di convolare a giuste nozze col fotografo della rivista; Flavio finisce immobilizzato per un tentativo di uccisione da parte del cognato che, a sua volta, viene ucciso da una donna che lui ricattava. Monica rinuncia a sposare il dottore che l’ha salvata e Andrea lascia Simona, scoprendone il doppio gioco a favore di Diego. Quest’ultima prova a rapire il figlio di Monica e Andrea ed è fermata da Irma che supera l’ostilità nei confronti di Monica, come già l’ha superata la signora Amelia.

Come in altre telenovele (non sono un’esperta, ne ho vista qualche altra una quarantina d’anni fa), lo svolgimento della vicenda avviene in larghissima parte in interni, con grandissimo uso di primi piani; la musica è un refrain che richiama situazioni o personaggi; l’abbigliamento, soprattutto quello che vorrebbe essere elegante è, molto spesso, esageratamente kitsch (la protagonista, Jeannette Rodriguez,  che è molto bella di suo ed è valorizzata talvolta da abiti fini e discreti, viene talaltra conciata come una bambola di quelle che si mettevano sui letti più o meno un secolo fa); c’è continua esplicitazione dei sentimenti e, soprattutto, nel tempo di mezza inquadratura si può passare da odi annosi ad amori forti o amicizie intense. L’approssimazione a tempi e sentimenti, però, in alcune situazioni, lascia spazio a sfumature emozionali di inattesa verità e l’impasto di divertente e di drammatico, che in alcune scene, è ridicolo, in altre regge molto bene. Il classismo, almeno come puzza sotto il naso verso chi è di classe sociale inferiore, viene sconfitto.

La semplificazione e, nello stesso tempo, la messa in evidenza dei sentimenti e, talvolta, delle sensazioni sono, probabilmente, i motivi che più portano a seguire le vicende dei personaggi, alcuni dei quali più definiti e credibili, altri più abbozzati. Le donne sono prevalenti, per numero ma anche per intensità di vicende rispetto agli uomini.

I personaggi maschili:

-Andrea s. è un uomo affascinante, che, all’apice del successo e del potere, deve affrontare la prossima morte; la sua è una scelta d’istinto: come una forma di liberazione, rispetto a tutto ciò cui in precedenza è stato costretto o lui stesso si è costretto.

-Andrea j. è, all’inizio un ragazzo ambizioso e dominato dall’odio verso il padre e la famiglia del padre; il suo rapporto con la madre è molto intenso, fin troppo: lei appare al suo servizio, ma, nel seguito, è lui che sacrifica se stesso alla volontà di lei. Alterna ingenuità, generosità, arroganza. Impiegherà molto tempo a maturare.

-Del Vario, uno degli ex amministratori della casa editrice, che si schiera dalla parte di Monica: pacato, sereno, ha raggiunto, grazie a pregressi dolori, un grande equilibrio di pensiero e di comportamento.

-Diego Fernadez, marito della sorella più grande di Andrea senior: il perbenista ipocrita, che nasconde, dietro forme melliflue, cattiveria e violenza.

-Il medico di famiglia: vorrebbe anche lui un pezzo d’eredità ma, in fondo, è uno corretto, che paga la sua correttezza con la vita.

-Il padre di Monica: un uomo buono, modesto, affettuoso con la figlia, incapace di mettere argini alla parlantina della moglie.

-Flavio, fratello minore di Andrea s.: appare “leggero”, intento al nulla e alle donzelle, ma ha sentimenti buoni e affronta un dramma personale senza piagnistei e, alla fine, sceglie di sposare la cameriera, gesto che chiude il cerchio dei problemi provocati dalla violenta separazione tra Irma e Andrea s. decisa da donna Amelia.

-Zanetti: un brav’uomo, capace di passare sopra le follie di Gloria, al contrario di Giovanni, bellimbusto, prevaricatore e violento di cui lei, all’inizio, si innamora.

-Il killer: cinico, del tutto privo di morale, incapace anche di portare a termine i suoi “compiti”: una caricatura.

-Luigi, detto piccioncino: da primo innamorato di Monica al matrimonio con Marilena, un bravo ragazzo che supera per amore i principi instillati dalla madre.

-Il medico che cura Monica: un bravo professionista e uomo perbene.

Quelli femminili:

-Monica, ragazzina semplice, ingenua, e vogliosa di vita, che si sposa come in trance con Andrea padre e poi vive, tra ansie, gelosie, disillusioni, la passione per Andrea figlio; saranno la malattia e la maternità a farla crescere e a farle assumere delle scelte anche in campo lavorativo.

-La madre di Monica: ansiosa, invasiva; parla sempre troppo.

-La madre di Andrea: lamentosa; possessiva del figlio; un rimpianto continuo di sé; è la vittima che diventa carnefice; forse la più odiosa della serie.

-Simona: la donna in carriera; elegante, fascinosa, colta, furba; ma, alla fine, si fa giocare dai suoi sentimenti.

-La signora Amelia: si sente la padrona, vuole comandare ed essere obbedita; quando la vita le chiede il conto, comincia a cambiare e si adegua al ruolo di nonna più che a quello di capo della famiglia.

-Laura: dopo anni in cui ha subito, affronta il peso di una scelta libera che la porterà ad una vita serena.

-Gloria: il sogno del grande amore, per lei ormai non più giovanissima, si trasforma in un incubo; sprofonda anche nell’alcolismo, per poi trovare serenità grazie all’amore del fotografo.

-Emma: l’amica-sorella di Monica, ragazzotta semplice, che dà consigli buoni e combina guai.

-Marilena, segretaria di Andrea: scombinata e facile alle avventure amorose, affronta con coraggio la malattia e la morte, che, da una parte, sembrano voler essere la punizione per una vita “libera” e, dall’altra immettono, nella telenovela, un tema importante, come quello della prevenzione anticancro. La sua storia con Piccioncino è la più strana di tutte: com’è si può passare dal tentativo di conquistare Andrea, ricchissimo, alla dedizione all’operaio Luigi? (D’altra parte, come si può diventare segretaria del capo in un battibaleno?)

-Mariuccia: buona, gentile, bada alla casa, alle persone, mantenendosi il più possibile neutrale tra le varie guerre (anche se comprende molto Irma, con cui aveva condiviso il lavoro il cameriera)

-Marta: la cameriera di casa Mejìa Gomez: semplice, graziosa, profondamente innamorata di Flavio.

-Barbara: la cattiva che si redime; da organizzatrice di omicidi a carcerata modello che vuole diventare suora. In guisa di complici di Diego e sue vittime altre donne, personaggi “minori”.

-Assunta, madre di “piccioncino”, anche lei ha un ruolo dominante sul figlio. La malattia farà sì che modifichi il suo atteggiamento nei confronti di Marilena.

Buoni o cattivi, belli o brutti, i personaggi sono tutti caratterizzati in maniera da restare facilmente nella mente degli spettatori. 

Il mondo del lavoro - cui, con ruoli differenti, partecipano tante donne -  è di sfondo; quello che muove la storia sono i sentimenti. Molto è legato alla maternità: che non è dipinta in rosa: Amelia, Irma, la più noiosa, Assunta sono, ognuna a suo modo, pessime; Lucia, la madre di Monica, non è esente da difetti. Andrea potrà stare con Monica alla luce del sole solo quando la madre lo "autorizzerà". Sono storie davvero fuori Storia? A me sono tornate in mente molte vicende che ho conosciuto da vicino. Monica, che ha difeso contro tutti la sua gravidanza e che ha abbandonato ingenuità a favore di una nuova forza nel difendere i suoi diritti e nel dire la sua nel lavoro, sembra pronta a diventare una madre affettuosa, fantasiosa, presente, ma non ingombrante.

 

Aggiunto il 24 gennaio 2021

Che cosa racconta la favola di Cenerentola? Pur essendoci diverse versioni della storia, il nucleo resta identico: la ragazza che – superando condizionamenti sociali, familiari, affettivi e facendosi forza con forze benefiche protettive – diventa non solo adulta, ma addirittura principessa: è lei, già umile e umiliata, che il principe riconosce come sua pari, sposandola.

In Piccola Cenerentola, la protagonista – una ragazzina deliziosa, ma con la testa un po’ in aria – viene subitaneamente elevata al rango di principessa da un uomo che la sposa per passare gli ultimi mesi della sua vita accanto ad una donna giovane, semplice, ingenua, divertente, a cui lui possa far facilmente nascere uno sguardo grato, affascinato e adorante per ogni piccola e grande che può offrirle. La morte di lui la lascia economicamente ricca, ma psicologicamente è ancora la ragazzina di prima, con in più la paura di affrontare un contesto sconosciuto e un nuovo sentimento amoroso: una passione travolgente. Il secondo principe è emotivamente immaturo, legato mani e piedi alla madre: non la sostiene, né tantomeno protegge. Così Monica, la piccola cenerentola – sottoposta all’odio di troppi e all’amore tutto nella testa ma incapace di attualizzazione di Andrea – affronta una discesa agli inferi prima di diventare adulta: capace di assumersi le responsabilità di madre ma anche di ereditiera del primo marito, con quello che ciò comporta anche in termini di impegni lavoro e di gestione di un tenore di vita elevato. I due finiranno con lo stare insieme. Monica, dopo una serie ripetuta di no, riconosce che non ha, nonostante tutto, mai smesso di amarlo, e accetta perciò, in virtù del suo proprio amore e dell’interesse del figlio, di accogliere l’amore molto più debole di lui. Andrea, incapace di assumersi le responsabilità dell’essere adulto, si sente autorizzato a vivere quest’amore solo quando la madre, mutando il suo atteggiamento, lo spinge in questo senso.

È chiaro che la vicenda non può che chiudersi con i due protagonisti insieme in un finale felice. Finale nel quale i due tornano alla pari ma perché Monica, vincente, dopo aver perdonato la signora Amelia e Irma, perdona anche Andrea, accoglie, sapendosi molto più forte, coraggiosa, pulita del padre di suo figlio, la debolezza, la vigliaccheria, lo stesso tradimento di lui, innamorato quasi immaginario in quanto senza spina dorsale: e, così facendo, Monica rispetta il suo sentimento più profondo.

Mi chiedo se e in quale percentuale le spettatrici avrebbero però, se non preferito, considerato più giusto un finale differente: con Monica che, pur senza odio, avesse lasciato Andrea e le due suocere al loro destino e avesse sposato Gustavo o Flavio o un nuovo personaggio.

 

domenica 27 dicembre 2020

Leggere al tempo dell'epidemia

 

Ho iniziato l’anno leggendo un capolavoro italiano, Tibi e Tascia di Saverio Strati e l’ho concluso, al momento, con la rilettura di un capolavoro mondiale, Resurrezione di Lev Tolstoj. In tutto, 71 libri, più o meno in media con quanto ho letto negli ultimi anni. Ma l’ho fatto con più difficoltà, con meno piacere.

In parte, dipende dai libri letti (al 90% libri usciti nell’anno). Ho l’abitudine di catalogare con un asterico i libri che mi piacciono, con due quelli che mi piacciono molto, con tre quelli che mi piacciono moltissimo, con nessun asterisco quelli che non mi piacciono. Quest’anno, ho dato due asterischi a quattro libri e tre a due. Un’annata in cui a piacermi davvero sono stati davvero in pochi.

Un po’ di più dipende dall’epidemia in corso. Che avrà, forse, indotto alcuni che leggevano poco a prendere qualche libro in mano (pare che ci sia stato un certo aumento di vendite, sia in cartaceo che in digitale), ma che avrà portato altri, come me (magari lettori forti o fortissimi) a preferire (a reggere?) di più una serie tv o altro rispetto ai libri: a meno che non si trattasse di libri super.

La pandemia ha modificato – e continuerà a farlo – la nostra percezione di noi stessi, delle relazioni, del mondo. E modificherà anche il rapporto con i libri e con tutto quello che, in qualsiasi modo, racconta storie. Di storie, però, avremo bisogno, anche nel futuro, prossimo e remoto. Di storie che smuovano la mente, facciano battere il cuore, accendano la fantasia, in cui ci si possa sentire a casa e che portino sulle strade del mondo.

 

PS Leggendo Resurrezione mi sono chiesta se sia il più grande romanzo “cristiano” di tutti i tempi. Ho provato a chiedere ai miei amici fb quali siano, a loro parere, i romanzi a forte spirito cristiano. Nessuno ha risposto. Rifaccio la domanda. Grazie.