domenica 26 marzo 2023

Se il lavoro non pesa

 

Le strade di Napoli stanno diventando tutte azzurre

Stamattina ho preso un pullman guidato da una donna. Capelli nerissimi, occhi neri sottolineati dal trucco, mani curate. Una bella, giovane donna. Che ha sempre parlato al telefono col vivavoce, raccontando un’altra telefonata, che le aveva cambiato la vita.

“Lei è in graduatoria, molti hanno rinunciato?”

“Di che stiamo parlando?”

“Del concorso dell’ANM”.

“Se è uno scherzo, è di pessimo gusto…”

“Ma quale scherzo.”

“Lei sarebbe disponibile?”

“Quando devo venire? Sono pronta subito.”

“Ma non avrà vacanze in estate…”

“Le farò un’altra volta.”

La passione di sempre della nostra autista sarebbe stata lavorare per la ANM, aveva fatto il concorso senza sperarci troppo (insieme a tanti altri, immagino) e se n’era pure dimenticata. Per essere certa di non stare sognando, ad un certo punto della telefonata che le aveva fatto battere il cuore a dismisura aveva messo il vivavoce perché la sorella sentisse e dicesse di aver capito quello che lei stessa aveva capito: che non solo aveva trovato lavoro, ma, addirittura, il lavoro che aveva sempre sognato. Per due giorni aveva saltellato di gioia per casa. Ma anche stamattina la sua voce tracimava felicità.

“Non mi pesa. Certo mi stanco, la stanchezza è oggettiva. Ma non mi pesa niente, nessun turno, nessuna tratta. Era quello che volevo fare da sempre.”

 

 

giovedì 23 marzo 2023

Per una scarpa sporca

 


“Perché mi state guardando?”

Quante volte – sguardo torvo, tono alterato – un ragazzo mi ha rivolto questa frase con l’atteggiamento di chi avrebbe voluto prendermi a botte. La cosa più strana – e molto difficile per lui da accettare nonostante gli venisse ripetuto e ripetuto – è che non “lo stavo guardando”, ovvero “osservando”, ma, semplicemente, era davanti alla mia vista: stava lì, in quell'aula, in quella posizione ed io, anche volendo, nonostante l’acclarata miopia, non potevo non vederlo.

E quante volte, una mattinata di scuola magari calma si è incrinata per un’impercettibile striscia/macchia/riga che un fortuito contatto aveva procurato ad una scarpa. Una delle mie colleghe aveva sempre a disposizione un cancella macchie da scarpe: una sorta di bacchetta magica che potesse far rientrare momenti di acuto nervosismo.

Due piccoli frammenti tra i tanti che mi sono tornati in mente davanti alla tragica fine di un onesto ragazzo la cui colpa – peraltro non commessa – sarebbe stata quella di aver sfiorato la scarpa di un quasi coetaneo.

Troppi ragazzi di Napoli crescono con una scorza apparentemente coriacea, una corazza di durezza e, insieme, senza pelle: incapaci di gestire “incidenti” da nulla, tesi a difendere il loro “territorio” come se si sentissero sempre sull’orlo d’essere “invasi”. Ragazzi che non hanno sviluppato un senso equilibrato di se stessi, violenti per un magma di aggressività e un eccesso di insicurezza, reattivi, più che alla realtà, alle loro tensioni, alle stratificate mancanze di cura e di attenzioni.

Ovvero – ripeterlo sembra una litania, ma così è – c’è, nella nostra società, un tuttora inevaso, enorme, problema educativo.

Sull'utero in affitto

 


Ha giustamente notato Antonella Boralevi sulla Stampa come l’angolo di visuale – e di giudizio – cambi di molto se si usa l’espressione utero in affitto, maternità surrogata, gestazione per altri.

A me quella corretta sembra utero in affitto, e mi appare di tutta evidenza che la condanna non può che essere totale per una pratica che, in una certa forma, anche l’Antico Testamento conosce – vedi Agar che partorisce un figlio ad Abramo al posto della sterile Sara – e che, nel mio stesso paesino, non era del tutto sconosciuta agli inizi del secolo scorso e che, oggi – con tutto ciò che scienza medica, psicologia, sviluppo dell’umano che si accumula in noi, consapevolezza della dignità delle donne e dell'infinito valore di ogni nuovo essere  ci squadernano – dovrebbe far parte, anche nel pensiero, solo dei reperti storici, come, che so, la schiavitù.