Il tono è colloquiale, decisioni prese con
sofferenza, comunicate con dolore. L’effetto è quello provato da chi, il 10
giugno 1940, alla radio, ascoltava, con amara consapevolezza, il roboante: “L’ora
del destino è scoccata…” Quando, intorno alle 21.30 del 9 marzo 2020, prima di
Montalbano, Conte riappare in tv è chiaro che siamo in uno di quei momenti,
tragici, che la storia racconterà come punti di svolta nelle vicende del Paese.
Davanti a quest’uomo (diventato presidente del consiglio quasi per caso, che si
trova a gestire una crisi epocale; il volto bianco e tirato, l’aspetto di chi è sotto
pressione) sembra di trovarsi davanti a quei film di fantascienza in cui le
persone (come noi sul divano, con la tv aperta, in attesa di una trasmissione
dal gran seguito) già in avanzato stato di angoscia, devono prendere –
definitivamente – atto che Caporetto è alle porte. Certo, i nonni, ragazzini,
furono chiamati a combattere e anche i padri, ragazzini, hanno combattuto:
guerra e resistenza, nemici in carne e ossa, fame, bombe, distruzione. Ora il
nemico non si vede, può entrare dentro ognuno di noi, ognuno di noi può
diventare nemico di chi gli è più vicino. E, tutti – chissà da quanto tempo non
si parlava di tutta l’Italia, di un’Italia, appunto, una – sono chiamati ad una guerra strana: ritrarsi, chiudersi
dentro casa.
È il momento della solitudine. Non, semplicemente, quella dello stare a casa, che può
essere, per quanto imposta e non priva di ansia, una solitudine piena di
riflessioni, di preghiera, di libri, di film, di cura delle piante, di piccole
passione magari a lungo trascurate. Ma, quella, più dura, dell’essere soli. Pezzi di famiglia sparsi
nel Paese, legati solo dai fili della tecnologia. Anziani che è meglio lasciare
ancora più soli piuttosto che rischiare d’infettarli. La figlia di una mia
amica ha partorito: non hanno fatto entrare il marito, figuriamoci la madre. Lo
stretto parente di un’altra mia amica è molto grave (per patologie “normali”): in
ospedale né la moglie né altri parenti possono entrare. Sono giorni in cui si nasce
e si muore in una solitudine assoluta. La morte l’avevamo messa tra parentesi,
come un evento reso inesistente dal subito oblio: una sorta d’incidente di
percorso “degli altri”, niente segni di lutto, in pizzeria con gli amici qualche
giorno dopo la morte di un congiunto. Oggi ci arriva in bollettini serali che
scandiscono una verità ineluttabile: siamo mortali. Prevarrà lo sconcerto radicale,
immedicabile, del sentirsi come gettati
nella vita, nel mondo, senza rete?
(Ri)scopriremo che proprio la morte, cosa pensiamo della morte, definisce il
nostro approccio alla vita? Di certo, a tanta fragilità, non eravamo più
abituati.
Chi l’ha scritto meglio è Riccardo Brun: «I
vostri genitori (che per crescervi qualche sacrificio l'avranno fatto) i vostri
nonni (che per risollevare questo Paese dopo la guerra di sacrifici ne hanno
fatti tanti), le persone con altre patologie (che potrebbero essere i vostri
fratelli, amici, fidanzati) le fasce più deboli di questo Paese hanno bisogno
del vostro aiuto e vi chiedono non di andare a spaccare pietre in Siberia, ma
di passare le serate a casa a leggere un libro o a vedere un film per un paio
di settimane. Ma voi non potete rinunciare a uno spritz ai baretti, perché non
ve ne frega niente di niente e di nessuno. Piccoli, meschini, codardi, viziati.
Essere così a vent’anni è la più grande miseria che vi poteva capitare.» Quando
si parla di emergenza educativa si ci
riferisce spesso a quella fascia di minori classificati in una gamma che va
dalla devianza alla delinquenza. In realtà c’è un’emergenza
educativa che riguarda fasce ben più ampie di giovani (e, come nel primo caso, anche
relativi genitori): persone benestanti (di modesto o più elevato benessere
economico) e acculturate (diplomi superiori e lauree che non sono mai diventate
cultura). E la mancanza di
educazione, in una società democratica, è un disastro.
Da ieri, il Papa celebra ogni mattina alle
sette, in diretta tv. Che il giorno inizi così dà un po’ di luce.
Immagini dal web
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