martedì 30 agosto 2022

Microstorie: Una serata al Parco della Conoscenza e del Benessere

 


Il Piano – che, poi, piano non era, tutto terrazze e scoscendimenti – poteva anche sembrare la bocca d’un vulcano, affossato rispetto alle colline circondanti, qualcuna verdeggiante, altre più brulle. L’Etna si stagliava all’orizzonte, nitida nel tramonto, come rifugio segreto di Morgana, i cui incantesimi legavano con fili di viola, rosa e azzurri le due rive dello Stretto.

Nina che, al Piano, non era mai stata si fermò a respirare l’aria quieta, dopo un tragitto nello sterrato breve e ansiogeno, per poi addentrarsi in una sorta di boschetto marino, un lungo canneto intrecciato di brucare, che faceva contrasto con le agavi vicine e i fichi d’india. Gli olivi erano carichi, i mandorli bruciati, nei vigneti non le sembrò di vedere molti grappoli.

Un gruppetto di persone in visita stava intorno a Pasquale che, del Piano era il curatore. Parlavano delle attività di ricerca e didattica del luogo, girando per piccole costruzioni. Nina prestava mezzo orecchio, che si fece intero quando il discorso cadde sul miele che vi si produceva.

Richiamati dall’incontro con un regista reso famoso dal film di un altro regista, in pochi minuti un centinaio di persone riempì lo spazio destinato alle conferenze, attrezzato con panche artigianali di legno, qualche sedia di plastica, qualche sedia sdraio. I cuscini sopra le panche erano già umidi della brezza della sera scesa rapidamente. 

Nina ne salutò alcuni e, con due o tre, scambiò qualche frase. Più di metà dei presenti erano pensionati o vicini alla pensione, più di un terzo erano cinquantenni o giù di lì. Di quasi giovani non ce n’erano molti, ancora meno di davvero giovani.

Il regista si accomodò sul piccolo palco tra i due intervistatori, una professoressa di Architettura e un avvocato, entrambi esperti in cinema. Nina guardò le luci, brillanti, sul mare e si appoggiò al quasi buio del Piano, che in altre circostanze le sarebbe apparso inquietante, come su un davanzale di bellezza.

 


 

Micorstoria liberamente ispirata agli incontri tenuti tra luglio e agosto 2022 al Parco Diffuso della Conoscenza e del Benessere di Pellaro

 

 

lunedì 29 agosto 2022

Rispondendo a Galli della Loggia sulla debole identità del cattolicesimo italiano

 


 

Sul Corriere della Sera di oggi c’è un interessante articolo di Galli della Loggia intitolato L’eclissi cattolica in politica che parte dall’assunto che “in Italia esiste un mondo cattolico che pensa, che scrive, che produce opere di ogni genere: ma nel discorso pubblico è un mondo pressoché assente.” Galli della Loggia indica la causa principale di questa “irrilevanza pubblica” nel fatto che “ormai l’identità cattolica appare qualcosa di talmente fluido da essere divenuta priva di connotati precisi, indefinibile, e quindi incapace di porsi come una vera protagonista del dibattito. Per esistere bisogna consistere. Ma oggi il termine cattolico può consistere in molte cose molto diverse tra di loro.” “La verità – dice ancora della Loggia è che sotto l’urto dissolvitore della secolarizzazione, il cattolicesimo non è riuscito nell’impresa – a onor del vero forse impossibile – di trovare una risposta all’altezza della sfida. Di fronte al micidiale combinato disposto di tecno-scienza e individualismo esso è passato da un’opposizione rassegnata ad un’altra, da un accomodamento compromissorio all’altro, da un’illusione benevola all’altra. Ma in questo modo l’identità cattolica, lungi dal conservarsi, si è frantumata in una costellazione di identità.”

A queste riflessioni vorrei rispondere con qualche considerazione, molto parziale, relativa alla mia esperienza.

Tra la fine degli anni Cinquanta e il primo inizio dei Sessanta del secolo scorso, tutti intorno a me erano cattolici: anche quelli atei, anche quelli che vedevano la Chiesa, meglio il Vaticano, come un centro di intrallazzi economici, anche chi aveva in tasca la tessera del Pci, sentito come il partito della giustizia sociale e degli interessi collettivi di contro una Dc percepita come più legata ai “signori” ed elargitrice di “favori”. Erano tutti cattolici perché partecipavano di una morale comune, si sposavano in chiesa, battezzavano i figli, non avrebbero neppure concepito un funerale non religioso. Pure chi non andava a messa, partecipava, ampiamente, della “sacramentalità” della stessa.

Quando, alla fine dei Sessanta arriva l’Humanae vitae – che, secondo me, segna, dopo il vento nuovo del Concilio, la prima radicale frattura tra Chiesa e Contemporaneità – il mondo, intendo il piccolo mondo di provincia intorno a me, è già profondamente cambiato. La realtà agricola, che così spazio ha nel Vangelo, con le parabole che qualsiasi contadino può cogliere nel profondo, comincia a non essere più quella principale; si va a scuola, tutti e tutte, almeno fino alla terza media, la televisione è ormai in tutte le case; l’accettazione dei “sacrifici” da sopportare “in questa valle di lacrime” cede via via il posto alla fiducia in un benessere diffuso, che renda l’esistenza più “facile”. Le chiese sono ancora piene, ma c’è uno “svuotamento” dall’interno che, progressivamente, arriva alla situazione attuale (il pontificato “trionfale” di Giovanni Paolo II ha nascosto molto

La chiesa attuale è una chiesa povera di “sacramentalità” ed è, questa, molto probabilmente, se non la causa principale, tra quelle decisive a definire la debole identità della cattolicità contemporanea. Ma possono i sacramenti, così come tuttora in vigore, “reggere” nella realtà complessa e complicata del mondo contemporaneo o “essere retti” dai fedeli del ventunesimo secolo, fedeli intesi non come “gruppi di eletti” ma, come è stato il cattolicesimo per quasi duemila anni, “chiesa di massa”?

Prendiamo, per esempio, la Confessione o Penitenza o Riconciliazione. Nella gamma ampia che va dai tradizionali sensi di colpa alla negazione del senso del peccato, con tutto quello che la psicanalisi ha rivelato sull’inconscio e la psicologia registra nei comportamenti, non è abbastanza chiaro come tale sacramento sia, almeno all’evidenza, ben poco praticato/praticabile?

O il Matrimonio. Quanti sono quelli che concepiscono davvero, poalinamente, il legame sposo-sposa come metafora del rapporto tra Cristo e la Chiesa? Non sarebbe più rispondente alla realtà proporre vari gradi “sacramentali”, con una “benedizione delle nozze” offerta a tutti e gradi più “misterici” a coppie che vivano con più consapevolezza il matrimonio sacramentale?

O il Battesimo. Su questo, in particolare, ci tengo a sottolineare che, a me, il Battesimo da neonati piace molto. Io, genitore, ti do, il meglio che ho: che la mia cittadinanza di “italiano/europeo”, la mia lingua, le tradizioni migliori dei padri e delle madri e ti offro anche quello che, per me, rappresenta la speranza che la tua vita abbia un senso che va al di là della vita stessa. E, però: non potrebbe, nella società dei matrimoni che si rompono facilmente, dove il cristianesimo non sta più nell’aria che si respira, proporre una catechesi fin da piccoli ma far sì che a decidere sia poi il ragazzo/a arrivata ad un’idea convenevole (14-16 anni)?

C’è, poi, la Messa. Naturalmente, il più dipende dalla sensibilità e dalla fede, magari profonda, dei singoli partecipanti e del ruolo, decisivo, che ha il sacerdote, con il suo atteggiamento, postura, voce e, soprattutto, omelia, ma una riflessione sulla struttura della messa a me sembrerebbe il caso di farla.

venerdì 26 agosto 2022

Microstorie: Promessa

Immagine dal Web
 

Fu il solito monologo del governatore della Campania – che in altri venerdì di epidemia pure l’aveva fatta ridere con la sua comicità greve di persona colta – ad aprire a M., in quel pomeriggio luminoso d’ottobre, una voragine in tutto il corpo. Un Natale senza figlia e senza madre, com’era stata la Pasqua precedente, non l’avrebbe retto. La figlia, sposata, viveva nella stessa città, l’avrebbe potuta incontrare in qualità di congiunta; la madre, vedova e anziana, viveva sola e lontana. Si trattava, quindi, di raggiungerla prima della nuova, ipotizzata, chiusura. Il marito di M. concordò, e disse: Andiamo con due macchine.

Guidatrice di città e anche il minimo indispensabile, M. si ritrovò così a percorrere, per la prima volta, seicento chilometri di autostrada. Sempre dietro la macchina del marito – che teneva un’andatura meno veloce della sua abituale – e parlando sempre con se stessa per farsi compagnia, tenere l’ansia sotto controllo, e non addormentarsi poiché la notte passata in bianco si faceva sentire.

Un cartello le fece intravvedere il nome di Paola che, nei viaggi in treno, era sempre stato una sorta di spartiacque: stiamo per arrivare. Le venne in mente il santuario, che aveva visto una sola volta e il santo che portava, nel nome, quel luogo. Non se ne era mai interessata più che tanto, come, di solito, non si interessava dei santi e neppure il fatto che fosse protettore della sua terra l’aveva mai coinvolta (un poco, solo la leggenda del mantello steso dal santo sulle acque dello stretto per raggiungere le sponde siciliane: quello sì, un ponte perfetto; le sembrava, anche, che buona parte dei reggini, così legati alla Madonna della Consolazione o, perlomeno, a FestaMadonna, non lo fossero altrettanto a San Francesco di Paola). Ma subito dopo la morte improvvisa della governatrice della Calabria –avvenuta pochi giorni prima – aveva visto su youtube un video della Santelli* al santuario di Paola e ne era rimasta stranamente commossa.

Fu forse per questo che pronunciò una promessa. “Se”. “Se accade questo, farò quest’altro.” Forse, aveva usato un doppio futuro: “Se accadrà questo, farò quest’altro.” In ogni caso, lo colse dopo molto tempo, un periodo ipotetico di primo tipo. La voce dal sen fuggita avvertiva il voto come una possibilità reale.

 

*In questi giorni in cui si polemizza sul ballo sfrenato della leader finlandese Sanna Marin, a me è tornata in mente, della Santelli, la tarantella a piedi nudi e senza mascherina meno di dieci giorni prima della sua morte. Due donne molto diverse, situazioni diverse con venature istituzionalmente disdicevoli, e, al fondo, una voglia di vita molto femminile.