lunedì 9 marzo 2020

Cronache da un'epidemia






In gravidanza, ho passato quasi tutti i nove mesi a letto, da sola. Certo, allora, la quarantena allungata era solo mia e, di tanto in tanto, veniva qualcuno a portarmi un po’ di spesa o farmi compagnia. Ma, davvero, poca cosa. Il resto, leggevo, vedevo un po’ di tv (allora non c’era il profluvio di canali di adesso e, soprattutto, non c’era internet). Per tutto il tempo, ho desiderato – desiderio irrealizzabile – andare, con mio marito, a mangiare una pizza. Quella fu una fase particolare, ma, nel resto della normalità, ho sempre passato moltissimo tempo a casa. Naturalmente, se ti dicono che lo “devi” fare, ti sembra più pesante, ma tant’è. Diceva un padre dehoniano, dal nome corrispondente alla persona, Giusto, che, a lui, di mangiare carne non gli importava proprio, meno i giorni quaresimali di astinenza, in cui gli mancava. Mi immagino cosa voglia dire restare a casa per chi non solo stava sempre in giro, ma ha, magari, un rapporto coniugale o genitori/figli, se non pessimo, non proprio idillico. Magari è il momento, tra gli altri libri, di tirar fuori quel Il diario di Anna Frank: che, si spera, in tanti abbiano già in casa.



Il 23 novembre 1980, alle 19.34, stavo al San Carlo. Quando i grandi lampadari cominciarono a girare vorticosamente sulla platea – memore di scosse molto meno violente già vissute a Reggio e, soprattutto, dei discorsi dei nonni sul terremoto del 1908 – pensai che potevano essere gli ultimi istanti della mia vita. E mi venne un senso come di invidia per i colleghi dell’Unità – allora collaboravo con la redazione di via Cervantes – che, sopravvissuti, avrebbero avuto la possibilità di raccontare cos’era successo. Anche adesso penso che la morte aleggi su di noi più di quanto si voglia pensare. Che anch’io potrei essere tra quelli che, arrivati in ospedale in condizioni pressoché irrecuperabili, dovranno essere sacrificati per salvare chi ce la può fare. Ho visto fin troppi film di guerra per non sapere che lo scenario, per quanto atroce è possibile e anche, nella sua ingiustizia (magari si salverà il cattivo e non il buono della situazione), giusto. Penso che “dopo”, ci sarà un mare di libri e di film su questa esperienza così inattesa, così drammatica. E penso che sarebbe bene, soprattutto per i ragazzi a casa, scrivere il loro diario di questi giorni. Per leggerselo dopo, per capire se, quanto e come, questa vicenda li ha cambiati.



Nell’elenco dei sofferenti (che è lunghissimo: da chi sta già perdendo il lavoro da chi, per precedenti problemi di salute, è particolarmente esposto al contagio), non posso non pensare a chi è in carcere: detenuti e operatori. Il mio cuore sta particolarmente a Nisida: ai ragazzi e a chi ci lavora.

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