domenica 28 febbraio 2021

Il popolo di mezzo di Mimmo Gangemi al Pellaro Libri online il 12 marzo alle ore 18

 


Venerdì 12 marzo alle ore 18, Pellaro Libri – sempre più legato alle attività culturali dell’IC Cassiodoro-don Bosco, grazie alla disponibilità della dirigente scolastica Eva Nicolò – ospita Mimmo Gangemi per presentare il suo nuovo libro, Il popolo di mezzo, edito da Piemme, proposto tra i candidati al Premio Strega. La Calabria si racconta recita, come sempre, la dicitura sulla locandina. Ma, questa volta, è del tutto limitata: parleremo, infatti, con un autore calabrese fino al midollo di un libro che racconta l’Italia e l’America: un pezzo del mondo del Novecento. Un libro straordinario, per ricchezza di trama, bellezza di stile, altezza di lingua, che resterà nel tempo nella narrativa italiana di maggior peso.

 


Questa la mia recensione al testo, già pubblicata su Zoomsud:

«Tony era assieme a Luigi, dietro una siepe, a una ventina di metri. E li vide morire, perché intorno alla quercia era rischiarato – da giorno che ha appena finito di sciogliere il nero della notte – dalle torce numerose in mano agli uomini.» Tony ha quindici anni, Luigi tredici e mezzo e sono in America da sette. Ci sono arrivati, provenienti da un paese delle Madonie, «il 9 settembre 1904, dopo ventiquattro giorni d’oceano», insieme ai genitori, perché il padre, Masi, «una vita decente e più sopportabile pretendeva per i figli, non piagati dagli stessi sacrifici suoi.» Sono stati sette anni più faticosi e amari di quanto Masi avesse supposto e la famiglia s’era dovuta dividere. La moglie, Lucia, con Luigi e la piccola Rachele, concepita in Italia ma nata negli Usa, abitava a News Orleans e raccoglieva cotone. Masi e Tony «lavoravano a cinque ore di locomotiva», «stendendo i binari che avrebbero portato i treni da New Orleans a Lafayette.» Il ritorno a casa del padre e del figlio, dopo nove mesi di assenza – che sembra aprire al possibile ritorno in Italia dell’intera famiglia – si risolve in tragedia, quando una folla inferocita, che riteneva Masi complice di alcuni neri implicati nell’uccisione di una guardia, si scaglia contro di lui e la moglie in un linciaggio mortale.

«Quella sera, in Tony qualcosa si ruppe dentro. Prima di svoltare nella via, si girò per un ultimo sguardo: l’oscurità negava le corde; così, cinque sagome erano appese a nulla, se non al cielo. Saldò la scena nei ricordi da conservare. Saldò con essa, fino al consumarsi dei suoi giorni, l’odio contro l’America. (…) Masticò vendetta. Quattro o cinque li aveva impressi nella mente. Li avrebbe conservati intatti i volti dell’uomo che abbatteva l’ascia sulla porta, di quello che girava le corde attorno al ramo, di quello che passava una mano morbosa sul seno della madre, di quello che infilava i cappi nel collo, di quello che aveva ghignato nel dare un calcio al banchetto.»

Il popolo di mezzo di Mimmo Gangemi, pubblicato da Piemme – quasi ideale altra faccia de La signora di Ellis Island – racconta con la forza dirompente della letteratura alta le vite parallele di Tony e Luigi, due facce di quell’emigrazione italiana in America nella prima metà del Novecento che non è tornata nel paese di origine, ma è diventata parte della nuova nazione.

Mentre Tony, prendendo la strada violenta dei malarazza, si autodistruggerà nella lunga vendetta contro chi ha ucciso i suoi genitori e disintegrato la famiglia (nella notte degli orrori, come risucchiata dal nulla, anche la sorella), Luigi cercherà di mettere a frutto i suoi talenti di trombettista jazz.

La trama percorre con forza e originalità la presenza, in America, del popolo di mezzo – «gli italiani, di più quelli del Sud, sporchi, cenciosi, violenti, erano considerati negri camuffati da bianchi»: più vicini ai negri che ai bianchi – già trattato nella prima parte de La Signora di Ellis Island: lì in miniera, qui nella costruzione delle ferrovie e dispiegandosi poi nelle molteplici vicende di chi ha fatto dell’America, per amore, per necessità, per delusioni personali, anche per odio, la sua definitiva nuova patria.

Le vicende emozionali dei due fratelli – la passione di Tony per Mary e quella di Luigi, prima per Rosaline e poi per Christine – si intrecciano con quelle “lavorative”: la passione musicale di Luigi, che deve lavorare molto su di sé per passare dalla padronanza tecnica dello strumento alla capacità di utilizzarlo per esprimere in maniera creativa le proprie emozioni, e la decisione di Tony, insieme a due amici, «di trasferirsi nella Little Italy di New York e d’impiantare lì un commercio con la Sicilia.»

Ne scaturiscono pagine intense su come la violenza subita dai genitori generi in un figlio una violenza distruttiva per sé e per gli altri e si sublimi, nell’altro, in una musica che «era l’urlo di dolore dei sofferenti. Lo partorivano il vissuto, le cicatrici che non s’erano rimarginate, gli umori, le sensazioni di una sera e quelle incrostate dal tempo, da doverci convivere per sempre. Era voglia di libertà dalle gabbie dell’esistenza. Era anima in cerca di sfogo, d’appagamento. Era anima che liberava il tormento, l’irrazionalità inconfessabile, i pensieri più nascosti.»

Di plastica incisività – come nelle più forti immagini del miglior Scorsese – la ricostruzione della lotta per il predominio territoriale, a base di pizzo, estorsioni, usura, tra siciliani e napoletani, tra “mafia” e “camorra”, in luoghi già infiltrati da Mano Nera, «Assassini, una banda di assassini. Il nome l’hanno preso dagli anarchici, quelli scappati qua in seguito ai Fasci siciliani. All’inizio c’era confusione tra anarchici e malandrini. Confusione... erano allo stesso tempo anarchici e malandrini.»

Eccezionale la ricostruzione, oltre che della vita nelle carceri e nei manicomi, della presenza degli anarchici italiani in America, con cui Tony viene a contatto frequentando la scuola: «E s’era presto accorto dell’ambiente politicizzato, con molti che ce l’avevano con l’America e con il mondo. Erano anarchici. E invogliavano all’anarchia. Dopo la lezione di lingua, invitavano a seguire i loro ragionamenti, in italiano. Coinvolgevano parecchi. S’accostò anche Tony, sebbene non avesse idea di cosa fossero gli anarchici, che predicassero, che chiedessero. (…) Ognuno secondo le proprie capacità e le proprie necessità. E sempre «né Dio, né stato, né servo, né padrone» infilavano – erano le parole che Andrea Salsedo e Mario Buda più consumavano. Tony non ci metteva lingua, non era sicuro di pensarla uguale, se fosse anarchico o solo animato dall’intento di soddisfare la rabbia contro l’America che troppo s’era abusata. Importava fino a un certo punto però. Se quelle idee tornavano utili per saziarsi di vendetta, viva l’anarchia, se la abbracciava, se la teneva stretta e cara. Sì, l’America a pretenderlo sovversivo. L’avrebbe accontentata. »

Straordinaria la lingua. La costruzione delle frasi di Gangemi è un monumento di carne, in cui le parole sembrano emergere come incise in un marmo michelangiolesco per solidità, plasticità, evidenza e, nello stesso tempo, vi scorre dentro il sangue della vita, con le sue passioni e i suoi dolori.

lunedì 22 febbraio 2021

I beati della nona Quaresima

 


Il bambino che stava per diventare un piccolo campione nel suo sport e mai più lo sarà. La ragazza pronta a passare un anno all’estero, che poi non ci andrà. La coppia che aveva iniziato a vagheggiare un figlio, che non vedrà mai la luce. Quante vite interrotte – oltre ai morti, alla crisi economica-sociale-educativa – in quest’anno drammatico, che è stato una sorta di lunga Quaresima. In effetti, anche se la Quaresima 2021 è cominciata solo da qualche giorno, di fatto non è che la continuazione di quella 2020: abbiamo concluso in un anno nove Quaresime e siamo solo all'inizio della decima.

Sarà per questo, che, a differenza degli ultimi anni, non ho sentito (per fortuna; almeno al momento) grandi inviti morali a fare deserto, a spegnere tv e cellulari, ad allenarsi in questo o in quel sacrificio.

In questo tempo così dolente quando non desolato o disperato, si può dire beato chi, comunque, questo tempo non l’ha disperso, chi è riuscito/riesce/riuscirà a dare valore anche ai vuoti, alle assenze, alle mancanze, alla sospensione della propria normalità. Chi riesce a costruire nonostante con gli scarti rimasti. Chi riesce, nel suo piccolo e, magari, anche in grande, a prefigurare il mondo che verrà. Perché per nessuno di questi giorni a nessuno verrà restituito un altro giorno.

 

domenica 21 febbraio 2021

I voti a Nisida e il Recovery Plan

 

Immagine dal Web

Quando ho iniziato a insegnare, la valutazione veniva espressa in giudizi. La cosa ci consentì per anni – non solo in piena coscienza, ma anche nel rispetto delle norme – di promuovere ragazzi con una preparazione oggettivamente insufficiente, che soggettivamente avevano fatti passi avanti buoni e qualche volta encomiabili nel ridurre le loro gravissime carenze cognitive di base.

Quando si passò ai voti, col criterio di una valutazione oggettiva, andai dal preside, Francesco Di Vaio – che ben conosceva la nostra realtà – e gli dissi che, se dovevamo dare rigorosamente sei a chi meritava oggettivamente sei, sette a chi meritava oggettivamente sette e così via, avremmo dovuto ridurre il numero degli esaminandi di parecchio. Di Vaio rispose che avrebbe posto un quesito al Ministero. E pure il Ministero rispose. Non ricordo le parole precise e mi dispiace di non avere il relativo foglietto di carta firmato da non so chi, ma il concetto era chiaramente questo: che il numero era relativo al percorso fatto dall’allievo.

Ne traemmo la conclusione che, quindi, come nel passato, chi valeva oggettivamente quattro ma partiva da meno 1 era meritevole di un sette e magari di più per gratificarlo rispetto a chi avrebbe avuto un sei, avendo raggiunto lo stesso quattro ma partendo da due.

Un modo di procedere ambiguo: giusto rispetto allo sforzo fatto dal singolo ragazzo, ingiusto rispetto all’oggettività che un numero dovrebbe esprimere. Fondamentalmente debole. 

Ci ho ripensato in questi giorni, chissà perché, leggendo come si era cercato di scrivere il Recovery Plan. Siamo un paese che ha grossi problemi con la matematica e con la stessa lingua italiana. C’è un dovere della classe dirigente di essere all’altezza delle sfide dell’oggi. Ma imparare, autoformarsi continuamente sono anche dovere, oltreché diritto, di ciascuno.