Il 25 novembre
1980, sarebbe dovuta uscire, sulle pagine napoletane dell’Unità, la prima
puntata di una mia inchiesta sulle università partenopee. Ci avevo molto
lavorato ed ero molto soddisfatta del risultato. Naturalmente, l’inchiesta non
vide mai la luce: perché a) nei primi giorni dopo il 23 le uniche notizie
possibili erano quelle relative al terremoto; 2) dopo, ci trovavamo in un’altra
realtà, e il passato, per quanto recente, non era più prossimo, bensì remoto, trapassato
remoto. La cosa mi è tornata in mente guardando la mia agenda che, nelle
scorse settimane, era piena di rinviato
e, adesso, è bianca: ché non ci sta nessuna possibilità di riprogrammare gli
impegni antecedenti, di fissarne dei nuovi. Quanto del lavoro già fatto, non
sarà più utilizzato? Non avrà valore se non, caso mai, storico, di un documento
d’altra epoca, ma non sarà neppure messo in archivio a futura memoria bensì
gettato alle ortiche?
Mi è capitato,
in passato, di fronte all’ipotesi di un intervento complicato (che, poi, non ho
dovuto fare), di scrivere i miei desiderata in caso di morte. Era, in fondo,
semplice: sarei morta io, sarebbero rimasti gli altri di casa, che avrebbero potuto
eseguire. Oggi, mi parrebbe strano fare anche una bozza di testamento: vedo in
pericolo tutti, non saprei né a chi né che cosa affidare. Mi sembra che, ora
come forse mai (perché internet ci porta momento dopo momento non solo a
conoscere i fatti ma a misurare le emozioni collettive), dobbiamo affrontare la
biforcazione cui è arrivata la nostra vita (non quella personale, quella di
tutti). Da una parte la morte (tra l’altro, atroce, e in condizioni di tremenda
solitudine): non so per quanti sia un pensiero consapevole, ma dopo un
millennio, ci riagganciamo a epoche che, la morte, non la nascondevano, anzi.
Dall’altra, il futuro: che appare non più prefigurabile nelle categorie che
abbiamo utilizzato per secoli. Torna la filosofia: nella sua dimensione teoretica
e quella morale. Torna la metafisica, oltre che la storia. E torna Dio. Ma non
come ritorno al passato. Come domande
di un futuro ignoto.
La prima cosa
che mi è venuta in mente quando si è capito che dovevamo stare a casa è stato Quasimodo. Nei giorni successivi Brecht. In
mezzo, ho letto la Gualtieri e non solo lei. La poesia ha molto da dirci mentre
un mondo muore e la nascita di un altro sarà una gravidanza lenta e rischiosa.
Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo
Ognuno sta solo
sul cuore della
terra
trafitto da un
raggio di sole:
ed è subito
sera.
1940 di Bertold Brecht
Mio figlio mi chiede: devo imparare la
matematica?
Perché, vorrei rispondergli. Che due pezzi
di pane sono più di
uno
te ne accorgerai egualmente.
Mio figlio mi chiede: devo imparare il
francese?
Perché, vorrei rispondergli. Quella
potenza declina. E
basterà tu ti passi la mano sul ventre,
gemendo,
che ti si capirà.
Mio figlio mi chiede: devo imparare la
storia?
Perché, vorrei rispondergli. Impara a
nasconderti in terra col
capo,
e forse sarai risparmiato.
Sì, impara la matematica, rispondo,
impara il francese, impara la storia!
9 marzo 2020 di
Mariangela Gualtieri
Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono
blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un
salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.
Adesso siamo a casa.
È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo
tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune
destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non
troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.
È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade
mi chiedo
non sia piena espressione di quella
legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di
cosmo.
Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che
viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al
posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.
Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come
bambini
che l’hanno fatta grossa, senza
sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno
abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle
lentezze
delle antiche antenate, delle madri.
Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la
prima volta
il pane. Guardare bene una faccia.
Cantare
piano piano perché un bambino dorma.
Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo
insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la
salviamo.
A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è
interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione
dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più
delicata
la nostra mano starà dentro il fare
della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.
Immagini dal Web
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