sabato 21 marzo 2020

Cronache da un'epidemia 11






Il 25 novembre 1980, sarebbe dovuta uscire, sulle pagine napoletane dell’Unità, la prima puntata di una mia inchiesta sulle università partenopee. Ci avevo molto lavorato ed ero molto soddisfatta del risultato. Naturalmente, l’inchiesta non vide mai la luce: perché a) nei primi giorni dopo il 23 le uniche notizie possibili erano quelle relative al terremoto; 2) dopo, ci trovavamo in un’altra realtà, e il passato, per quanto recente, non era più prossimo, bensì remoto, trapassato remoto. La cosa mi è tornata in mente guardando la mia agenda che, nelle scorse settimane, era piena di rinviato e, adesso, è bianca: ché non ci sta nessuna possibilità di riprogrammare gli impegni antecedenti, di fissarne dei nuovi. Quanto del lavoro già fatto, non sarà più utilizzato? Non avrà valore se non, caso mai, storico, di un documento d’altra epoca, ma non sarà neppure messo in archivio a futura memoria bensì gettato alle ortiche?


Mi è capitato, in passato, di fronte all’ipotesi di un intervento complicato (che, poi, non ho dovuto fare), di scrivere i miei desiderata in caso di morte. Era, in fondo, semplice: sarei morta io, sarebbero rimasti gli altri di casa, che avrebbero potuto eseguire. Oggi, mi parrebbe strano fare anche una bozza di testamento: vedo in pericolo tutti, non saprei né a chi né che cosa affidare. Mi sembra che, ora come forse mai (perché internet ci porta momento dopo momento non solo a conoscere i fatti ma a misurare le emozioni collettive), dobbiamo affrontare la biforcazione cui è arrivata la nostra vita (non quella personale, quella di tutti). Da una parte la morte (tra l’altro, atroce, e in condizioni di tremenda solitudine): non so per quanti sia un pensiero consapevole, ma dopo un millennio, ci riagganciamo a epoche che, la morte, non la nascondevano, anzi. Dall’altra, il futuro: che appare non più prefigurabile nelle categorie che abbiamo utilizzato per secoli. Torna la filosofia: nella sua dimensione teoretica e quella morale. Torna la metafisica, oltre che la storia. E torna Dio. Ma non come ritorno al passato. Come domande di un futuro ignoto.



La prima cosa che mi è venuta in mente quando si è capito che dovevamo stare a casa è stato Quasimodo. Nei giorni successivi Brecht. In mezzo, ho letto la Gualtieri e non solo lei. La poesia ha molto da dirci mentre un mondo muore e la nascita di un altro sarà una gravidanza lenta e rischiosa.


Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo

Ognuno sta solo
sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.


1940 di Bertold Brecht

Mio figlio mi chiede: devo imparare la matematica?
Perché, vorrei rispondergli. Che due pezzi di pane sono più di
uno
te ne accorgerai egualmente.
Mio figlio mi chiede: devo imparare il francese?
Perché, vorrei rispondergli. Quella potenza declina. E
basterà tu ti passi la mano sul ventre, gemendo,
che ti si capirà.
Mio figlio mi chiede: devo imparare la storia?
Perché, vorrei rispondergli. Impara a nasconderti in terra col
capo,
e forse sarai risparmiato.
Sì, impara la matematica, rispondo,
impara il francese, impara la storia!



9 marzo 2020 di Mariangela Gualtieri

Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.

Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.

E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.

Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.

Adesso siamo a casa.
È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.

O tutti quanti o nessuno.
È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.

Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.

Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.

Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.

Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.

Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.

A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.

Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.


Immagini dal Web

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