venerdì 20 marzo 2020

Cronache da un'epidemia 10







I ragazzi di Nisida fanno parte della giuria che sceglie il vincitore dello Strega Giovani. Per parlarne con loro (come e quando, vedremo), sto leggendo i dodici libri finalisti. Nell’ultimo letto, quello di Carofiglio, c’è un passo in cui un uomo racconta cosa gli ha detto la madre qualche tempo prima di morire: «Ha detto che le era difficile immaginare il mondo senza di lei. Quando sei giovane e pensi a un mondo e a un tempo in cui tu non esistevi, la cosa non ti turba. Perché la storia sembra dotata di una direzione implicita che porta fatalmente al momento in cui sei tu a irrompere sulla scena. Il mondo senza di noi prima di noi è una lunga fase preparatoria. Il mondo senza di noi dopo di noi invece è semplicemente il mondo senza di noi. Finché appare lontano riusciamo a placare l’angoscia dell’idea. Ma io so che fra qualche settimana, al massimo qualche mese, non ci sarò più e il mondo continuerà a esistere, senza nemmeno una increspatura. Senza nemmeno un sussulto.»

Chissà che mondo ci sarà tra qualche mese. Chissà quanti saranno morti. Chissà se noi saremo vivi. In pochi giorni sembrano spariti dai social i canti sui balconi, gli arcobaleni colorati, i cartelloni con andrà tutto bene. C’è chi continua ad andare a spasso, ‘a muzzu come dice nel nostro dialetto il sindaco di Reggio, ma i più, smarriti, inquieti, percepiscono che ora, come mai nella loro precedente esperienza, del doman non v’è certezza. E non sono pochi – magari, dietro un po’ di ottimismo della volontà – a inclinare al pessimismo della ragione. A pensare che potremmo non vincerla, questa guerra. Che non è detto che reggiamo alla fatica tremenda di chi deve lavorare e all’inazione di chi deve restare a casa. Che rischiamo di soccombere. Che, diciamola, gli scenari che ci si prospettano sono apocalittici, in Italia e altrove: che, se non siamo alla fine del mondo, potremmo essere alla fine, tragica, di buona parte di questo mondo.

 


Ieri sera, il computer non vede più Sat 2000, ci saranno troppi contatti, una parte del Paese si ritrova nella preghiera per l’Italia. Per che cosa preghiamo? Per i morti, che abbiano pace. Per i malati, che possano guarire. Per i medici, che reggano. Per chi, anziani soli, carcerati, bambini, familiari dei defunti e dei malati, è in condizioni di particolare fragilità. Per i ricercatori perché trovino le medicine giuste per contrastare il virus, il vaccino che lo debelli. Per chi ha responsabilità di governo, perché prenda le decisioni migliori per i cittadini. Non si chiede il miracolo – che domani ci alziamo e tutto sia normale. Lo sappiamo bene – come diceva Einstein – che Dio non gioca a dadi, che la terra ha un ordine (e un disordine) interno che a sta a noi comprendere e gestire. Ha detto Gesù: «Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà.» (Matteo, 18) L’esperienza millenaria di chi crede sa che non sempre è così. La generazione dei miei nonni, di fede incrollabile, lo diceva con genuina semplicità: Diu non senti all’angiuli cantari, ‘e senti ‘o sceccu ragghiari, Dio non sente gli angeli cantare, perché mai dovrebbe sentire noi che siamo asini che ragliano? Un modo per inchinarsi con rassegnazione all’imperscrutabile volontà divina. Bonhoeffer, nell’atrocità dei campi di concentramento, lo spiegava meglio: «Dio esaudisce sempre: non le nostre richieste, ma le sue promesse.» Questa volta, le nostre richieste corrispondono alle sue promesse?

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