I ragazzi di Nisida fanno parte della giuria
che sceglie il vincitore dello Strega Giovani. Per parlarne con loro (come e
quando, vedremo), sto leggendo i dodici libri finalisti. Nell’ultimo letto,
quello di Carofiglio, c’è un passo in cui un uomo racconta cosa gli ha detto la
madre qualche tempo prima di morire: «Ha detto che le era difficile immaginare il mondo
senza di lei. Quando sei giovane e pensi a un mondo e a un tempo in cui tu non
esistevi, la cosa non ti turba. Perché la storia sembra dotata di una direzione
implicita che porta fatalmente al momento in cui sei tu a irrompere sulla
scena. Il mondo senza di noi prima di noi è una lunga fase preparatoria. Il
mondo senza di noi dopo di noi invece è semplicemente il mondo senza di noi.
Finché appare lontano riusciamo a placare l’angoscia dell’idea. Ma io so che
fra qualche settimana, al massimo qualche mese, non ci sarò più e il mondo
continuerà a esistere, senza nemmeno una increspatura. Senza nemmeno un
sussulto.»
Chissà che mondo ci sarà tra qualche mese. Chissà
quanti saranno morti. Chissà se noi saremo vivi. In pochi giorni sembrano
spariti dai social i canti sui balconi, gli arcobaleni colorati, i cartelloni
con andrà tutto bene. C’è chi continua
ad andare a spasso, ‘a muzzu come
dice nel nostro dialetto il sindaco di Reggio, ma i più, smarriti, inquieti,
percepiscono che ora, come mai nella loro precedente esperienza, del doman non v’è certezza. E non sono
pochi – magari, dietro un po’ di ottimismo della volontà – a inclinare al
pessimismo della ragione. A pensare che potremmo non vincerla, questa guerra.
Che non è detto che reggiamo alla fatica tremenda di chi deve lavorare e all’inazione
di chi deve restare a casa. Che rischiamo di soccombere. Che, diciamola, gli
scenari che ci si prospettano sono apocalittici, in Italia e altrove: che, se
non siamo alla fine del mondo, potremmo essere alla fine, tragica, di buona
parte di questo mondo.
Ieri sera, il computer non vede più Sat 2000, ci saranno troppi contatti, una parte del Paese
si ritrova nella preghiera per l’Italia. Per che cosa preghiamo? Per i morti, che
abbiano pace. Per i malati, che possano guarire. Per i medici, che reggano. Per
chi, anziani soli, carcerati, bambini, familiari dei defunti e dei malati, è in
condizioni di particolare fragilità. Per i ricercatori perché trovino le
medicine giuste per contrastare il virus, il vaccino che lo debelli. Per chi ha
responsabilità di governo, perché prenda le decisioni migliori per i cittadini.
Non si chiede il miracolo – che
domani ci alziamo e tutto sia normale.
Lo sappiamo bene – come diceva Einstein – che Dio
non gioca a dadi, che la terra ha un ordine (e un disordine) interno che a
sta a noi comprendere e gestire. Ha detto Gesù: «Se due di voi sopra la terra si
accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà.» (Matteo, 18) L’esperienza
millenaria di chi crede sa che non sempre è così. La generazione dei miei nonni,
di fede incrollabile, lo diceva con genuina semplicità: Diu non senti all’angiuli cantari, ‘e senti ‘o sceccu ragghiari, Dio
non sente gli angeli cantare, perché mai dovrebbe sentire noi che siamo asini
che ragliano? Un modo per inchinarsi con rassegnazione all’imperscrutabile
volontà divina. Bonhoeffer, nell’atrocità dei campi di concentramento, lo
spiegava meglio: «Dio esaudisce sempre: non le nostre richieste, ma le sue
promesse.» Questa volta, le nostre richieste corrispondono alle sue promesse?
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