lunedì 30 maggio 2022

Quando mia madre indosssò la maglietta di Franz Beckenbauer di Francesco Pileggi

 


Un paese di Calabria, col mare lontano, i padri emigrati, le madri sempre occupate, il maestro Pietro che, a scuola, racconta di Ulisse e decanta le bellezze della loro terra, e otto ragazzini che passano molto tempo insieme, sopra e sotto un albero di limone. Siamo nel giugno del 1973 – Allende è ancora il presidente del Cile e il nipote di Paul Getty sta per essere rapito. Attraverso la voce di una radio, il mondo arriva anche a loro, frammenti di eventi che, in qualche modo, si depositano nella mente e, sotto i loro occhi, accadono “terremoti” che tolgono fiato e parola, ma la loro passione, quella che più li unisce è il pallone: “Crescere senza un padre accanto non era un dramma, anzi ci sentivamo pure fortunati allora. Eravamo quelli che potevamo giocare a pallone fino a tardi la sera. Le nostre finestre erano silenziose, nessuno affacciato a urlarci di rientrare perché era troppo tardi per starsene fuori. Le nostre madri avevano sempre qualcosa da fare. Fu così che nacque la nostra squadra di calcio”.

Tutta da leggere la vicenda che porta i ragazzi e, poi, le loro madri a indossare la maglietta con i colori e il numero di Franz Beckenbauer, il kaiser che, nella partita del secolo di tre anni prima – Italia -Germania, 4 a 3 – aveva giocato con una fasciatura che l’aveva costretto a tenere la mano sempre sul cuore. Il calcio come mito collettivo cui ancorarsi: e, addirittura, non solo dalla parte di chi perde (Baggio è rimasto Baggio, o forse lo è diventato ancora di più dopo il rigore sbagliato dei Mondiali 94), ma addirittura dalla parte dello “straniero” (che straniero è fino a un certo punto, visto che la Germania costituiva casa e lavoro dei padri emigrati)

Quando mia madre indossò la maglietta di Franz Beckenbauer del lametino Francesco Pileggi, regista teatrale e film-maker, edito da Rubbettino, è un libro tenero e aspro, che parte come una favola e diventa un pezzo della storia della Calabria, con la frattura dell’emigrazione che segna la vita dei singoli e della collettività. Gli otto compagni richiamano alla mente i ragazzini della Morante: gli unici esseri che, nonostante tutto, con la loro ingenuità, il loro sguardo pulito e stupito, la poesia dei loro sogni, il dono di immaginare e sfidare il futuro – possono salvare il mondo.

Pubblicato su Zooomsud: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108439-recensioni-francesco-pileggi-quando-mia-madre-indosso-la-maglietta-di-franz-beckenbauer

Su Zoomsud è uscita anche la mia recensione del libro di Marisa Merico: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108429-la-recensione-marisa-merico-l-intoccabile-sperling-kupfer

 

 


Chi ama i drama crime ha probabilmente già visto, e quasi certamente apprezzato, le prime cinque puntate di Bang Bang Baby – su Amazon Prime dal 28 aprile – e aspetta con ansia le altre cinque, che saranno visibili dal 19 maggio. Ideata da Andrea Di Stefano e diretta da Michele Alhaique, Giuseppe Bonito e Margherita Ferri, Bang Bang Baby ha debuttato su Amazon Prime il 28 aprile, con protagonista una bravissima Arianna Becheroni, e, tra gli interpreti, un’eccezionale Dora Romano. Si tratta di una serie tv molto ben riuscita (è facilmente prevedibile che non ci si fermerà alla prima stagione), con uno sguardo originale, tra reale e grottesco, sulla ‘ndrangheta, e, in specie, sull’ascesa, all’interno del clan protagonista di due donne: una giovanissima “principessa” e “nonna Eroina”, la “mammasantissima”. Bang Bang Baby, con l’intreccio di mobster movie, favola e romanzo di formazione, rielabora, con grande autonomia creativa, L’intoccabile, l’autobiografia di Marisa Merico, edita da Sperling &Kupfer.  Marisa Merico – il cognome è quello del marito – è figlia di una inglese, Pat Riley, e di Emilio Di Giovine, a sua volta figlio di Maria Serraino, nata a Reggio Calabria e poi trasferitasi a Milano: «una normalissima casalinga italiana, tranne per la calibro 38 nascosta nell’armadietto delle spezie e un paio di rivoltelle infilate nei pacchi di pasta; al posto della lista della spesa, poi, aveva taccuini pieni di contatti per qualsiasi necessità o incarico, che infilava tra le lattine di pelati. Cucinare era per lei una terapia. Non usciva mai. Non aveva vizi, non beveva, non fumava. Il suo unico interesse erano gli affari della famiglia.» Affari che, dal contrabbando e dalla ricettazione, passano rapidamente, nella Milano da bere degli anni Ottanta, ai grandi traffici di droga: «La “signora Maria” controllava in toto il suo regno, la sua miniera d’oro. E così trascorsi i miei primi anni di vita non in un asilo ma in un covo pieno di armi e merci rubate. Posso dire che la mia carriera criminale cominciò quando avevo solo pochi mesi. Infatti fu allora che, ovviamente a mia insaputa, partecipai alla mia prima missione di contrabbando.»

Il punto di maggiore interesse delle memorie di Marisa Merico riguarda proprio il ruolo della nonna, nonché quello delle zie, delle mogli, fidanzate e amanti degli zii e quello assunto da lei stessa nell’ambito della famiglia: famiglia molto più allargata (con separazioni, divorzi, nuove e molteplici relazioni) di quanto sia soliti pensare riferendosi a clan di ‘ndrangheta: «Nella ’ndrangheta le donne hanno sempre avuto un ruolo attivo, specialmente nel caso di faide o guerre. Quando gli uomini sono in pericolo, tocca alle donne organizzare la famiglia. Le donne non sono mai un bersaglio. Durante le faide spesso gli uomini si travestono da donna per sfuggire agli agguati. Alcuni hanno persino cercato di mettersi la parrucca senza radersi i baffi! Per i traffici di droga e il trasporto di denaro sporco papà sfruttava la facilità con cui le donne potevano muoversi liberamente senza destare sospetti. I poliziotti non vedevano le donne come possibili gangster, figuriamoci le ragazze. Eravamo più libere degli uomini. Vestiti attillati, minigonne e seni procaci erano efficaci distrazioni per passare la dogana senza problemi. La manipolazione divenne per noi un modo di vivere: ci faceva sentire potenti. Se prendevo l’aereo, portavo le mazzette di denaro attaccate al corpo e indossavo un paio di mutandoni alla Bridget Jones, vestendomi a strati. Ero carica di contanti, dalla testa ai piedi, divisi in tante buste di plastica. Ero una montagna di soldi con le gambe, un albero di Natale umano addobbato di banconote.» Ma le donne non si fermano a ruoli di esecutrici e comprimarie. È Marisa Merico, col padre in carcere, a decidere affari di rilievo e gli uomini, che «erano rimasti fedeli a mio padre. Portavano molto rispetto alla nonna, ma l’ultima parola spettava a me, non a lei.» Ed è una donna, la sorella del padre, a determinare, con la sua collaborazione con i magistrati, la crisi del clan: «Sebbene fosse sempre stata l’ultima ruota del carro (lautamente ricompensata, si intende, con una rendita di circa centoventi milioni di lire due volte la settimana), zia Rita con le sue rivelazioni fece crollare l’intero castello dei Di Giovine. Conosceva tutti i segreti, tutti gli scheletri nell’armadio della famiglia.

Il carcere si apre, quindi, per tutti i membri della famiglia, compresa Marisa: «Personalmente non ho ancora accettato la sua scelta (ndr: la scelta della zia di collaborare). Per me quel che ha fatto è stato un tradimento, ai danni della famiglia ma anche di se stessa. Non potrò mai capirlo. So che la mia famiglia ha compiuto delitti tremendi. Mi spiace di aver fatto del male indirettamente: ai drogati, ai morti per overdose e a quelli ammazzati dalle armi che ho trasportato in Calabria. Sono cose di cui mi pento con tutto il cuore e per le quali sto ancora pagando. Non mi pento per la vita che ho condotto, che mi ha permesso di vedere e fare molte cose. Ho vissuto come una principessa della ’ndrangheta, con tutti i soldi che volevo per comprare qualsiasi cosa desiderassi. Non me ne pento, ho già pagato anche per questo. Ho odiato ogni singolo minuto trascorso in prigione, anche se lì ho incontrato persone bellissime e ho vissuto delle situazioni che mi hanno reso più forte. Anche grazie a quell’esperienza, oggi sono ciò che sono. Il carcere mi ha reso più umile, compassionevole e comprensiva. Non giudico più a prima vista. So che ogni volto nasconde una storia diversa. L’aspetto non basta per capire se hai davanti un santo o un mostro. Spesso nemmeno la persona stessa lo sa. E ciò è terribile.»


sabato 28 maggio 2022

Maria. Cronaca di una vita di Ulas Samchuk

 


“Ancora nella mia piena maturità l’Ucraina non esisteva nelle carte geografiche come identità politica; nel tracciare il percorso di Europa ritrovata essa, con Leopoli e Odessa, ne è divenuta il centro; ora occupa tutto lo spazio che rimane del dolore di essere uomini”.  Carlo Ossola, prefazione di Maria – Cronaca di una vita

 


“Sui campi erano stese tante file di covoni pieni di grano. Era la terra d’oro, la terra del pane e del lavoro. Il sole la amava, la proteggeva e la accarezzava. Il mondo era dorato di sole e blu celeste…”

Per 173 pagine Maria - Cronaca di una vita di Ulas Samckuk, pubblicato nel 1934 e appena edito, in Italia, da Clichy (a cura di Carlo Ossola; traduzione di Mariia Semegen) è il racconto, delizioso – lieve anche quando gli accadimenti sono drammatici – delle molteplici vicende di una bambina-ragazza-donna e dei suoi due mariti, nella campagna ucraina ricca di alberi, di frutta, e, soprattutto, di spighe: “I campi pieni di grano s’inchinavano come dei monaci nella preghiera”. Le vicende della storia ufficiale, come il potere degli zar o la rivoluzione del 1905, arrivano a toccare anche pesantemente la vita dei nostri personaggi, ma non mutano una quotidianità fatta di semina e raccolta, con i granai che si riempiono “di frumento, orzo, avena e segale” e di campane che richiamano ai riti religiosi e alla preghiera.

Da pag. 175 alla conclusione (pag.226) con la vittoria della rivoluzione bolscevica e collettivizzazione forzata delle campagne, il racconto si fa, prima, più duro – “Allora Satana nelle sue botteghe infernali iniziò a forgiare la sua nuova invenzione diabolica. Sul telo della sua bandiera scrisse: NEP, l’URSS” – e, poi, straziante.

Ulas Samckuk, considerato uno dei più grandi autori ucraini del Novecento, vi narra, praticamente in contemporanea, la tragedia dell’Holodomor, il genocidio per fame del popolo ucraino determinato dalla politica staliniana (1932-33) con una vivezza che rende le pagine, pur nel suo andamento che continuerei a definire “delizioso”, sempre più difficili da leggere perché il cuore si stringe e gli occhi si velano: “Il sole tramontò, le tenebre coprirono tutta l’Ucraina”.

Sarebbe stato bello poter leggere queste straordinarie pagine, oltre che per la loro vividezza narrativa, come documento storico di un evento consegnato agli annali del passato, senza la tragica filigrana della nuova “guerra del grano” della Russia putiniana all’Ucraina e, stavolta, anche al mondo: soprattutto a quello più povero.

giovedì 26 maggio 2022

Donne, maternità e lavoro, quaranta anni dopo

 

Le immagini sono tratte dalla Voce della Campania,
 annate 1978-79

“Maternità e fabbrica” era il titolo di un seminario che si svolse a Napoli dal febbraio al giugno 1978: il primo, sull’argomento, nella città partenopea, mentre a Torino ne erano in atto una quarantina. Organizzato, con la collaborazione del Dipartimento di Medicina del Lavoro del Primo Policlinico, dal Coordinamento donne della FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), vi parteciparono 80 tra operaie e impiegate: 30 dell’Alfasud, 27 della Selenia, 7 dell’Ignis, 5 della Mecfond, le altre dell’Olivetti, della Fiat, della Gela, dell’Italsider, dell’Aeritalia. Si riunivano due volte la settimana in salette maleodoranti dell’ospedale, ascoltavano le “lezioni” sull’apparato genitale femminile, sulla fisiologia e patologia della maternità, sulla contraccezione e l’aborto, in riferimento in particolare agli “aborti bianchi” tenute dalla ginecologa Maria Pia Buccico (oggi più conosciuta come Maria Pia Marroni, ndr) e, suddivise in quattro gruppi, si confrontavano sulle loro esperienze. Ne scrissi sulla Voce della Campania del 30 aprile 78, in un articolo intitolato Se il ginecologo è donna, che riprende il dibattito avvenuto in due di questi incontri. Uno sulla contraccezione (usata, soprattutto, la spirale, pochissimo la pillola: e, comunque, con grossi fastidi per tutte) e l’altro che partì dal concetto di istinto alla maternità (affermato da alcune e negato da altre) e dai sacrifici per far crescere un figlio (che alcune ritenevano eccessivi e, per altre, erano ripagate proprio dall’essere madri: “Non voglio sacrificarmi più di quanto faccio già”, “Ma che cosa ho perso? Forse non vado a cinema, ma non ci andavo già”) per soffermarsi poi sulla scarsissima conoscenza del proprio corpo (“A me non è mai capitato di guardarmi”) e la vergogna di andare dal ginecologo (“Il solo pensare di mettermi sul lettino e in quella particolare posizione mi fa sentire male”). Quasi nessuna si era mai fatta seguire da una ginecologa: un po’ perché “ce ne sono così poche”, ma, soprattutto, perché “non ci avevo mai pensato”. 

 


Non ero, né sono poi diventata, una grande conoscitrice di problematiche industriali, ma l’aver seguito quel seminario mi portò ad approfondire l’argomento con una piccola inchiesta sulle condizioni delle lavoratrici nelle fabbriche di Napoli e dintorni. Sulla Voce, dal maggio al luglio 1978, uscirono una serie di articoli sui miei incontri con le lavoratrici della Selenia, dell’Alfasud, della Longano, della Valentino, della Cirio. Incontri avvenuti, quasi tutti, all’orario di mensa (non tutte le fabbriche avevano una mensa; alla Valentino si mangiava sugli stessi tavoli con le colle e i solventi; alla Longano le operaie si portavano il cibo da casa, o andavano a comprare un panino lì vicino): un momento di socializzazione che corrispondeva anche al quotidiano scambio di confidenze tra lavoratrici. Al di là delle specifiche condizioni di lavoro nelle singole fabbriche – dall’umidità che portava non pochi problemi di salute alla Cirio ai controlli clinici che si sarebbero dovuti, ma non si facevano, ogni tre anni alla Valentino – emersero tre costanti. Che si chiamassero Maria, Anna o Giuseppina, fossero operaie o impiegate, in tantissime sentivano il peso del doppio lavoro, casa-fabbrica, con l’orario di lavoro dilatato dalla carenza e/o lentezza dei trasporti e, soprattutto, la difficoltà a gestire i figli piccoli. Chi aveva bambini, raccontava di alzate antelucane per accompagnarli dai nonni o, addirittura, di trasferimento dei piccoli dai nonni; chi non ne aveva motivava la scelta con l’impossibilità di far convivere lavoro e maternità. La seconda era che il lavoro veniva avvertito da alcune come una realizzazione o, almeno, come un’esperienza umanamente arricchente, ma, molto di più, e dalla netta maggioranza, come una necessità: più di una dichiarava che ne avrebbe fatto volentieri a meno, se il marito avesse guadagnato sufficientemente. Solo lì dove si arrivava ad un prodotto finito visibile – come nel caso delle scarpe o delle borse di Valentino – il senso di soddisfazione per il proprio lavoro, per quanto faticoso, diventava palpabile. In terzo luogo, emergeva la bassa presenza di donne nei CdF. Alla Selenia, che aveva 800 donne su 3000 addetti, c’erano 5 donne su 55 nel Consiglio di Fabbrica; 3 su 204 all’Alfasud, che pure col suo combattivo “collettivo femminile” presentava la più alta “politicizzazione” femminile. Quasi tutte dichiaravano di non avere né tempo né voglia di sobbarcarsi un ulteriore compito oltre quelli, inevitabili, del doppio lavoro casa-fabbrica: “Non abbiamo, dietro di noi, esperienze di lotta di altre donne: uscire dal guscio, quindi, è difficile e ci vorrà del tempo”, commentava Modestina Cuccurese, una delle poche donne nel CdF della Selenia e continuava: “A volte non parlo perché ho paura di dire fesserie. Poi parla mio marito, anche lui nel CdF e mi accorgo che dice le stesse cose che volevo dire io… e sono accettate da tutti”.

 


Angela Francese, che da operaia era entrata, unica donna, nella segreteria della CGIL napoletana, commentò così, in un’intervista che fa parte integrante della mia piccola inchiesta, quanto affermato dalle tante donne che avevo ascoltato: “Degli articoli apparsi sulla Voce mi ha impressionato soprattutto un fatto che conosco bene, ma ogni volta mi stupisce: anche nelle donne che vivono in fabbrica, nella maggior parte dei casi, manca un’analisi politica. Dai loro discorsi, cioè, vengono fuori i problemi del quotidiano (che io non chiamo mai personali, ma, appunto, quotidiani, il che è molto importante perché indica una presa di coscienza della realtà sociale, ma permane l’incapacità di individuare la controparte, di collegare questi problemi alla situazione politica complessiva”. Aggiungendo subito dopo: “Il limite che si esprime nei discorsi delle donne è anche il punto da cui bisogna partire: perché la loro sensibilità diciamo sociale è più forte di quella degli uomini, spesso limitati a discorsi generali e astratti”.

 


L’inchiesta – che si soffermò anche sul dibattito allora molto acceso sul part-time (avrebbe accresciuto l’occupazione femminile o avrebbe ulteriormente confinato le donne in una posizione subalterna?: dibattito in cui intervenne anche un uomo di eccezione, Percy Allum, storico e politologo da poco scomparso) – si rivolse poi, fino al gennaio 1979 ad altre forme di lavoro femminile: le commesse, le collaboratrici domestiche, e le donne che lavoravano, a domicilio, per le industrie. Le commesse rappresentavano il 62% degli impiegati della Rinascente, il 75% della Coin, l’80% dell’Upim, l’81% della Standa, con un massiccio ricorso al part-time per l’impossibilità di conciliare l’orario di lavoro con l’impegno casalingo: il 36% alla Rinascente, il 42% all’Upim, il 45% alla Standa, il 50% alla Coin. Il lavoro domestico, considerato ormai umiliante dalle italiane, cominciava ad essere affidato a straniere. Il solo circolo Acli del Vomero ne aveva piazzate, nel 78, 419. In tutto, ne erano state impiegate a Napoli, con regolare contratto, 630 nel 1977 e 731 nel 78 fino a novembre, provenienti in gran parte da Capo Verde, Sri Lanka, Filippine ed Eritrea. Molto apprezzata una lettera di accompagnamento del parroco.

 


Se tutta l’inchiesta fu per me una scoperta – scrivevo con lo spirito di chi provava a riportare semplicemente quello che vedeva e sentiva– l’emozione che mi diedero le ore passate a Mariglianella fu particolarmente intensa. Scrissi: “Delle centinaia di lenzuola che i magazzini di piazza Mercato a Napoli – STEM, soprattutto – vendono ogni mese, almeno 300 provengono da Mariglianella, un piccolo comune a 30 km circa dal capoluogo. Qui l’80% delle donne dai 15 ai 45 anni (ma si arriva ai 60 ‘quando ancora si vede’) fanno ‘lavoro a casa’. Cioè: confezionano i fiorellini per le bomboniere (1 lira l’uno; ne devono fare 500 per guadagnare cinquecento lire al giorno, ‘ma per una ragazza che non trova nient’altro da fare, sono sempre qualcosa’); rifiniscono i pantaloni prodotti da una piccola fabbrica di Lausdomini (1 lira a bottone; 5 lire per la sfilatura; 5 lire per un passante: in tutto 50 lire per un pantalone, sempre che sia la stessa donna e non diverse a compiere le operazioni indicate) e, soprattutto, ricamano lenzuola. Lenzuola che nei negozi di piazza Mercato si vendono intorno a 37/40 mila lire se di misto lino e alle 45 se di lino e in quelli di via Chiaia o del Vomero raggiungono cifre che si aggirano sulle 150/200 mila lire e che a loro vengono pagate 3 o 5 mila lire a seconda del disegno”. Dieci ore di lavoro per 53 lire al giorno. Un rapporto tra commercianti e “ragazze” filtrato dalle ‘signore’, le intermediarie, sposate con un marito che guadagna perché dovevano dare una caparra, “che prendono la stoffa dai grossisti, tagliano e disegnano le lenzuola e, dopo averle fatte ricamare e, da altre ragazze, lavare e stirare (per 400 lire l’uno), le inscatolano e le riportano ai venditori”.

 


Più di quaranta anni dopo, come e quanto sono cambiate le donne? Quanto è cambiato il loro rapporto con il lavoro e con la maternità? La società, nel suo complesso, che tipo di evoluzione ha avuto su queste tematiche? Lascio queste domande – ma ce ne sono tante altre possibili – aperte. Con una notazione a margine. Napoli può avere molte mancanze, ma da tanti anni ormai abbonda di scrittori/trici. Strano che nessuno/a abbia pensato (almeno per quanto ne so) a dedicare un romanzo alle “ragazze di Mariglianella”.