Non
hanno pane? Possono mangiare brioches, forse non è mai stata pronunciata. Non è compito mio, sì, sicuramente. L’ha
detto la Lagarde: dando prova che: 1) anche quando si tratta di istituzioni, le
persone non sono tutte uguali, e Draghi (e Mattarella) ne valgono non so quante di Lagarde; 2)
contrariamente a quanto affermano alcune, anche le donne non sono tutte uguali:
ovvero, ci stanno le ottime, le buone, le discrete, le sufficienti, le insufficienti,
le scarse e quelle prossime allo zero.
Siamo passati, in un lampo, dal che sarà mai, è niente più che un’influenza o
sindrome simil influenzale all’epidemia e, poi, alla pandemia: non tanto perché lo dice l’Oms,
quanto perché Europa ed Usa si accorgono che il contagio si estende. Mai
quarantena, nel mondo, è stata così visibile.
Tonnellate di parole e di immagini vengono immesse ogni momento sui social.
Per i sociologi della comunicazione una manna dal cielo. Si divertiranno un
mondo a classificare le tipologie dell’umano che emergono: i complottisti; gli
isterici; i super paurosi; i sognatori. Tutti a rivestirsi di immagini (angosciose
o idilliche), di versi (belli e brutti), di appigli passati come razionali
risposte (io ho cucinato l’antica ricetta
della nonna; io ho pulito gli interstizi tra le mattonelle del bagno); di
proclami su quando finirà e tutti ci abbracceremo in un mondo bello, buono, con
l’aria pulita, in un clima che quello della poesia pastorale è troppo violento.
C’è chi si lamenta che lo Stato non c’è.
Quando, forse come mai nell’Italia repubblicana, lo Stato è: le migliaia di medici, di infermieri che lavorano senza
posa sono l’espressione di un Servizio Sanitario Nazionale che, sebbene tagliato, bistrattato, regionalizzato, in
taluni casi commissariato, è uno dei
punti forti del Paese. Non dimenticando chi l’ha messo in piedi (una donna di
quelle stratosferiche, Tina Anselmi), bisognerà ricordarsi bene, dopo, che deve
essere realmente UNO in un Paese UNO. E, accanto a medici e infermieri,
tantissimi lavoratori che, senza lo Stato, non sarebbero lì, anzi qui: a
garantire, nell’assoluta anomalia della situazione, il minimo di normalità da
cui ricominciare.
Nella serie dei lamentosi, ci sono alcuni
cattolici, che, immemori di quello che significò, in epoche passate, far
processioni per difendersi dalla peste, considerano una sorta di eresia l’attuale
chiusura di chiese e celebrazioni. Che senza
domenica non si può vivere (allargata in realtà a: senza comunione
quotidiana; ho letto anche la proposta che venga distribuita se non nelle case
nelle piazze!) mi sembra – mi sbaglierò e me ne scuso – più vicino alla
mancanza che alla pienezza della fede.
I miei preferiti, al momento, sono
comunque i sognatori. Quelli che dicono che, poi, saremo una specie di Eden:
tutti a volerci bene, tutti ad abbracciarci. Certo, cambieranno alcune cose. Forse,
per una fase, ci saranno più riunioni familiari oppure, inversamente, ci
riverseremo tutti al ristorante. Magari voteremo in maniera diversa che se
avessimo votato nello scorso autunno. Alla fine di quest’anno, nasceranno,
forse, più bambini (sarebbe una buona cosa) e avremmo più divorzi (purtroppo).
Gli psicologi e gli psichiatri faranno in pochi mesi più soldi di quanti ne
hanno fatti in decenni di onesta professione per curare i traumi da quarantena.
Ok. Fondamentalmente, però, resteremo chi siamo, semplicemente accentuando
questo o quell’aspetto, positivo e/o negativo del nostro carattere. Questo marzo
e magari questo aprile, se la quarantena continuerà, porteranno semplicemente a
galla il meglio e il peggio di ciascuno di noi: che continueremo a portarci
dietro anche dopo. Per questo, se una
parte di questo nostro tempo chiuso riuscissimo a utilizzarla per fare un po’
di conti con noi stessi, sarebbe un bel passo avanti.
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