domenica 28 aprile 2024

Microstorie: Il santo

 

Una starlette, in una trasmissione tv di nicchia, confessa che, pur non seguendo alcuna pratica religiosa, rivolge ogni giorno una preghiera a san Teofrasto di Serrastretta (nome e paese a caso, ndr), santo già venerato dalla nonna e che in molte occasioni le ha fatto grazie importanti. L’intervista che ha molto successo per via delle affermazioni della starlette sul suo nuovo amore (un personaggio dello spettacolo o della politica molto in auge) viene ripresa anche dalle trasmissioni pomeridiane e il nome di san Teofrasto di Serrastretta, fino a quel momento conosciuto al più da una decina di persone entra nelle case di tutti.

Non si sa molto di lui. È vissuto qualche secolo prima (da precisare), era un eremita che accoglieva nella sua umile grotta tutti quelli che per vari motivi passavano dalla montagna dove abitava, faceva piccoli miracoli: ogni volta che arrivava qualcuno, la tavola, fino ad allora misera – poche erbe amare e un po’ di latte della capretta che viveva con lui – non mancava, per il visitatore, di pane e di carne e anche di un bicchiere di buon vino e di una parola che, a secondo la necessità, o lo rafforzava nel bene o gli faceva volgere al bene la vita.

Come è come non è, in tutto il paese monta l’attenzione per san Teofrasto di Serrastretta. Ormai sono in pochi ad andare a messa, la morale cristiana – sebbene alcuni suoi principi siano diventati pensieri e sentimenti comuni – è largamente in disuso per quanto riguarda la vita familiare e affettiva, ma in molti cominciano a pregare san Teofrasto. Qualcuno lancia sul mercato immaginette e statuette, che hanno una buona resa economica, e arriva, immancabile, una fiction tv, con un attore noto e la starlette tra le protagoniste. Il successo è grande, sembra di rivivere la passione collettiva che anni prima aveva riguardato padre Pio.

La prima nuova devota di san Teofrasto a morire è la signora Nunzia Laganà. Quasi centenaria, ha passato gli ultimi anni della vita in poltrona recitando rosari con la tv aperta: il borbottio in sottofondo le impediva di cedere continuamente al sonno (di giorno; di notte, a letto, non chiudeva occhio). Quando metabolizza il nome di san Teofrasto, Nunzia aggiunge ai rosari recitati chiedendo l’intercessione di san Francesco, sant’Antonio, san Giuseppe, santa Rita e santa Teresa quello recitato con l’intercessione di san Teofrasto.

Giunta in paradiso, la signora Nunzia si ritrova in famiglia: ora può felicemente passare tutto il tempo con parenti e amici che aveva amato e che erano morti da tempo. Gioisce nel constatare che anche i santi più acclamati, quelli che lei aveva ogni giorno ricordato pregando, sono persone alla buona: può chiacchierare alla pari con san Francesco, sant’Antonio, san Giuseppe, santa Rita e santa Teresa e anche con le migliaia di santi e sante che mai aveva pregato ma che la trattano come una di loro. Di san Teofrasto, però, nessuna traccia.

Nunzia se ne stupisce ma non trova il coraggio di chiedere di lui finché un giorno si fa forza e chiede a sant’Ilarione, che è quello sempre pronto a dare informazioni. Sa così che san Teofrasto non è santo. Dio, nella sua giustizia, l’aveva assegnato all’inferno, ma, per la sua grande bontà s’era poi risolto di mandarlo in purgatorio, anche se nel girone più basso, quello più lontano dal paradiso  Questo perché Teofrasto – non era proprio il caso di continuare a chiamarlo santo – non aveva mai avuto né fede né speranza né carità, la sua vita di preghiera, penitenza ed eremitaggio era frutto solo del suo fastidio a stare tra la gente, della sua insofferenza per la vita e, quanto ai cosiddetti miracoli, erano solo il risultato di allucinazioni cui, con suoi preparati di erbe, induceva coloro che passavano da lì.

Nunzia se ne dispiace molto e così capita ad altri devoti che via via raggiungono il paradiso. Diventati un bel gruppetto decidono di chiedere a Dio che faccia salire in paradiso anche Teofrasto

Noi, disse Nunzia, gli abbiamo voluto bene e gliene vogliamo ancora.

Dio recalcitra –Teofrasto non aveva fatto grandi passi avanti in tutto il lungo tempo passato nell’ultimo girone del purgatorio – ma non vuole che qualcuno soffra in paradiso, tantomeno Nunzia.

Te lo affido, dice, ma ad una condizione. Devi riuscire in un’impresa fallita agli angeli maestri del purgatorio: che si converta almeno un po’.

 

giovedì 18 aprile 2024

I giorni di Vetro di Nicoletta Verna

 

A cosa ti serve ’sta matteria, Bruno?

Gli sfulminò negli occhi il solito baleno di rabbia.

– A fare giustizia. Cos’ho da rimetterci? Al massimo, la vita.

– La vita vale piú di un’idea.

– Dipende da quale vita. E da quale idea.

Sí alzò un rumore da fuori, lui si affacciò svelto alla finestra. Poi gli cadde l’occhio sulla testa della negra. Piegò la bocca e la sfondò con il calcio del fucile. I frammenti, i capelli e le ossa si spargugliarono per il pavimento.

– Ti libero da quella bestia, Redenta. Stanotte. Te lo giuro.

Allora mi feci coraggio. Stavamo tutti per morire: tanto valeva cavarsi i rusghini dalla gola.

– L’ultimo giuramento che mi hai fatto non è andato a finire bene.

Lo sguardo gli si riempí di tristezza, ma durò un istante.

– Qua farò come voglio io. Non sarà qualcun altro a decidere per me.

– Cosa?

– Lascia stare –. Guardò ancora fuori dalla finestra, poi parlò mesto, come a sé stesso: – Che ne sai tu, Redenta, della vita? Cos’hai visto, cosa credi di conoscere? Te lo dico io: niente. Non sai che il mondo è molto piú difficile, molto piú sgumbiato di come ti sembra. Di come ti immagini.

– E perché non me le spieghi, queste cose tanto difficili?

Fece un sorriso che pareva un pianto, o una preghiera.

– Se stanotte campiamo, te le dirò. Va bene.


La prima cosa che segnalerei de I giorni di Vetro di Nicoletta Verna, edito da Einaudi è che si tratta di un romanzo. Non è, come sembrerebbe, un’osservazione di assoluta banalità. Una parte non indifferente della narrativa italiana che va per la maggiore è fatta di memoir, commistioni di storie più o meno inventate e note autobiografiche dell’autore/autrici, biografie con annesse autobiografie ecc.ecc., fiction e autofiction. Alcuni memoir, biografie, autobiografie variamente coniugate ad altre storie mi sembrano dei buoni libri, qualche volta degli ottimi libri. Ne amo parecchi e amo molti libri di pura fantasia. Però. Sarà che ho un’età, ma, quando mi trovo di fronte ad una storia che è chiaramente una storia inventata ma che nell’invenzione trasfigura fatti realmente accaduti e connette le vicende dei personaggi con la Storia, ma ho l’impressione di trovarmi più a casa.

La seconda è che, essendo il libro narrato in prima persona da due “io” femminili, le due voci sono distinguibili: cosa che non sempre riesce così bene. Nella lingua di Redenta – giusto per indicare un particolare – c’è un largo uso di espressioni dialettali perfettamente aderente al personaggio.

La terza è il tasso di violenza che viene raccontato. Violenza dei fascisti conquistatori in Etiopia (gli italiani sono stati tutt’altro che brava gente) e padroni in Italia, soprattutto nella fase repubblichina. Violenza anche quando non necessaria della banda partigiana comandata da Bruno-Diaz. Violenza contro le donne: il rapporto di Vetro con la moglie (senza nulla togliere a quello con la “sposa africana” del padre di lei) è di una ferocia che raramente ho letto così descritta in un romanzo. Violenza della storia che sembra dominare tutti, che non pare lasciare vie d’uscita ma in cui persone pur umiliate e sofferenti possono aprire crepe di luce. Lo scandalo della storia, di cui parlava la Morante, ancora più tremendamente squadernato, ma che si apre alla speranza.

La quarta, e decisiva nella mia valutazione, è che una parte dei libri li lascio nel momento in cui li finisco (perché ne leggo tanti? non so): mi hanno già detto quello che potevano dirmi (che ero in grado di ascoltare?).  Questo mi sta continuando ad accompagnare, chiedendomi di pensarci ancora.