Eh,
prof, adesso sì, che sono davvero agli arresti domiciliari. Come tutti, però.
V. è uscita da poco da Nisida. Carcere
tramutato in arresti domiciliari, con obbligo di lavoro.
Adesso, anche il suo lavoro è sospeso per
la stretta sul coronavirus e, quindi, sta, davvero,
ai domiciliari. Con cellulare, fortunatamente.
Ora che la maggior parte degli italiani – confinata
nelle proprie stanze, spesso separata dagli affetti più forti, con pochissime
ore d’aria, passate in fila al supermercato o in farmacia, ma pur sempre con
alcuni confort (internet, tv, cellulare) – fa una vaga, lontana, esperienza di
quello che vuol dire la privazione della libertà in un carcere, forse potrebbe cominciare
a provare sentimenti di più intelligente comprensione per chi in carcere c’è
davvero.
E porre alla politica, insieme a tanti
altri problemi stringenti (far ripartire l’economia; valorizzare la scuola e la
sanità; amministrare con competenza; saper guardare lungo), anche il problema di
cosa è, troppo spesso, il carcere in Italia.
A differenza del minorile (che,
ringraziando leggi, operatori, e maggiore attenzione sociale, è un modello per
l’Europa), il carcere per adulti, con le dovute eccezioni e nonostante il
prodigarsi di tanti direttori e personale tutto, resta troppo spesso un luogo in cui si sancisce,
giustamente, l’illegalità, in un contesto non legale (a cominciare dal
sovraffollamento).
Qualche sera fa, mi è arrivata, inattesa,
la telefonata di un più che cinquantenne, appena uscito da un carcere
calabrese. Se non hai un carattere forte,
ne esci distrutto, perché non c’è niente. Niente, s’intende, oltre la pena.
Niente che abbia a che fare con quella che la Costituzione chiama rieducazione.
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