sabato 14 marzo 2020

Cronache da un'epidemia 5






Eh, prof, adesso sì, che sono davvero agli arresti domiciliari. Come tutti, però.

V. è uscita da poco da Nisida. Carcere tramutato in arresti domiciliari, con obbligo di lavoro.
Adesso, anche il suo lavoro è sospeso per la stretta sul coronavirus e, quindi, sta, davvero, ai domiciliari. Con cellulare, fortunatamente.

Ora che la maggior parte degli italiani – confinata nelle proprie stanze, spesso separata dagli affetti più forti, con pochissime ore d’aria, passate in fila al supermercato o in farmacia, ma pur sempre con alcuni confort (internet, tv, cellulare) – fa una vaga, lontana, esperienza di quello che vuol dire la privazione della libertà in un carcere, forse potrebbe cominciare a provare sentimenti di più intelligente comprensione per chi in carcere c’è davvero.

E porre alla politica, insieme a tanti altri problemi stringenti (far ripartire l’economia; valorizzare la scuola e la sanità; amministrare con competenza; saper guardare lungo), anche il problema di cosa è, troppo spesso, il carcere in Italia.

A differenza del minorile (che, ringraziando leggi, operatori, e maggiore attenzione sociale, è un modello per l’Europa), il carcere per adulti, con le dovute eccezioni e nonostante il prodigarsi di tanti direttori e personale tutto, resta troppo spesso un luogo in cui si sancisce, giustamente, l’illegalità, in un contesto non legale (a cominciare dal sovraffollamento).

Qualche sera fa, mi è arrivata, inattesa, la telefonata di un più che cinquantenne, appena uscito da un carcere calabrese. Se non hai un carattere forte, ne esci distrutto, perché non c’è niente. Niente, s’intende, oltre la pena. Niente che abbia a che fare con quella che la Costituzione chiama rieducazione.

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