“È scomparsa la Nina” disse nonna Giovanna alle tre del pomeriggio di martedì sette aprile. Non potrei dimenticare ora e data perché il tono di nonna era quello di una tragedia che avrebbe diviso la storia della famiglia tra un prima e un dopo. Ma l’otto aprile, alle sei del mattino – quando io ancora dormivo – la Nina ricomparve.
La Nina era la gallina preferita di mia nonna. Quella che, a sentire lei, faceva le uova più belle, più gustose, più proteiche, più tutto. Nonna Giovanna aveva sette galline: quattro rosse, che facevano uova rosse e tre bianche che facevano uova bianche. La Nina era una delle tre, e, secondo la nonna, era possibile distinguere le sue uova, bianche, da quelle delle altre due galline, bianche, che facevano uova bianche.
Nei tempi normali, quando non era né troppo caldo né troppo freddo, tutte le galline facevano un uovo al giorno. Da quando la Nina era scomparsa e poi ricomparsa, però, le uova erano state sempre, e solo, sei. Le abituali quarantanove uova settimanali bastavano appena alle necessità di nonna Giovanna. Dieci le regalava alla sua amica Teresa; cinque a suo fratello Nicola e altre cinque ad un lontano cugino. Erano scambi alla pari: la sua amica, il fratello e il cugino le portavano verdura e frutta dei loro orti. Per l’amica aveva una preferenza perché, diceva, era quella che s’era sempre trovata vicina in ogni guaio della vita. Cinque le dava a Flora, che le veniva a fare i servizi pesanti. Le ventiquattro uova che le restavano erano così suddivise: sette le mangiava lei direttamente – uno al giorno: e a tale alimento faceva risalire la sua buona salute – quattro venivano utilizzati per fare dei biscotti da colazione, tre per la torta della domenica, sei per la frittata familiare del giovedì e quattro nei ripieni.
La nonna viveva al piano di sotto della casa dove stavamo mia mamma, mio padre ed io. La sua cucina sboccava su un cortile ampio, dove, su un lato, c’erano le piante di prezzemolo, basilico, maggiorana, rosmarino, timo e peperoncino e, sull’altro, un pollaio. Ho usato l’imperfetto perché sto parlando d’una storia dell’anno scorso, ma noi viviamo anche ora nello stesso posto. Comunque: mia madre, che non ama né le galline né le uova – strofina i piatti sporchi di giallo con fette di limone fino a consumarli – avrebbe volentieri sostituito il pollaio con un roseto. Ma, per la nonna, le galline e le uova sono sacre quanto le messe che vede in tv, più d’una al giorno.
Tredici giorni dopo il suo tragico annuncio, mi sembrò di sentire sommessi coccodé dall’angolo più isolato del cortile, dov’erano accatastate una decina di cassette di legno. Nina era lì, appiattita tra due cassette. Quando mi vide, si allontanò rapidamente svolazzando. In una cassetta, uno accanto all’altro, tutte sulla parte sinistra, c’erano tredici uova bianche, dodici fredde, uno ancora caldo.
Fosse stata un’altra delle galline, nonna l’avrebbe fatta a brodo, che le galline lei le ama ma devono fare a modo suo. Con la Nina si limitò ad una predica che la gallina ascoltò con i soliti occhi vacui, senza sembrare né pentita né preoccupata. Nonna chiamò la sua amica Teresa, controllarono insieme che le uova fossero tutte mangiabili e impastarono un po’ di chili di farina. Avremmo avuto biscotti non solo per colazione, ma anche per merenda per parecchio tempo.
Se questa storia fosse successa anche solo qualche mese prima, non mi sarei accorto dei sommessi coccodé. Fino a un anno fa, quando non ero a scuola, stavo a fare judo o catechismo o a giocare con qualche amico e, nel poco tempo che passavo a casa, c’erano i compiti e la playstation. Quando la scuola è stata chiusa, i primi giorni sono stato contento, ma poi hanno chiuso anche judo, la classe è stata sostituita dalla dad, non ci siamo più visti a casa di nessuno. Ho cominciato ad annoiarmi. Provavo a chiamare via skipe qualche compagno, facevamo qualche gioco a distanza, ma non bastava sempre a superare la noia.
Una notte di pioggia, mi è sembrato che tutto quel rumore fossero le voci dei miei compagni: e ho provato ad ascoltare cosa stessero dicendo Fabiana e Marco, Giuseppe, Letizia e tutti gli altri. Da allora, ho iniziato ad ascoltare il vento – non m’ero mai accorto di quanto fischi, quasi tutti i giorni – e ho imparato a capire se è borea o scirocco dal suono, senza bisogno di guardare, dalla terrazza, se il mare va verso destra o verso sinistra o come si muovono le foglie degli alberi. Ho dato un nome ai cani che abbaiano in lontananza. Ho cominciato a inventarmi storie. Non lo sa nessuno, ma ne ho già scritte dieci.
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