Ieri sera, mentre il maestro ci dava notizie del povero
Robetti, che dovrà camminare un pezzo con le stampelle, entrò il Direttore con
un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli
occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto
vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il
Direttore, dopo aver parlato nell’orecchio al maestro, se ne uscì, lasciandogli
accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito.
Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: — Voi dovete essere
contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di
Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello
venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia
degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una
delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi
montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno e di coraggio. Vogliategli bene,
in maniera che non s’accorga di esser lontano dalla città dove è nato; fategli
vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta il piede, ci
trova dei fratelli. — Detto questo s’alzò e segnò sulla carta murale d’Italia
il punto dov’è Reggio di Calabria. Poi chiamò forte: — Ernesto Derossi! —
quello che ha sempre il primo premio. Derossi s’alzò. — Vieni qua, — disse il
maestro. Derossi uscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino, in
faccia al calabrese. — Come primo della scuola, — gli disse il maestro, — dà
l’abbraccio del benvenuto, in nome di tutta la classe, al nuovo compagno;
l’abbraccio dei figliuoli del Piemonte al figliuolo della Calabria. — Derossi
abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: — Benvenuto! — e questi
baciò lui sulle due guancie, con impeto. Tutti batterono le mani. — Silenzio! —
gridò il maestro, — non si batton le mani in iscuola! — Ma si vedeva che era
contento. Anche il calabrese era contento. Il
maestro gli assegnò il posto e lo accompagnò al banco. Poi disse ancora: —
Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere,
che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di
Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò
per cinquant’anni e trentamila Italiani morirono. Voi dovete rispettarvi,
amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno perché non è
nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi
da terra quando passa una bandiera tricolore. — Appena il calabrese fu seduto
al posto, i suoi vicini gli regalarono delle penne e una stampa, e un altro
ragazzo, dall’ultimo banco, gli mandò un francobollo di Svezia. Da
Cuore di De Amicis
Quand’ero piccola, ho mal digerito Pinocchio e molto amato Cuore, su cui devo aver versato non poche lacrime di commozione.
Da grande, Pinocchio non ho mai avuto la voglia di riprenderlo in mano (anche
se, ad un certo punto, le note del cardinale Biffi me ne avevano dato una vaga
idea). Cuore, invece, l’ho riletto. Trovandolo molto retorico.
Non
so se sui ragazzini di oggi, ben più smaliziati di quelli della mia generazione,
quell’educazione, retorica, ad essere dei buoni cittadini, possa
ottenere lo stesso effetto che me l’ha fatto amare da piccola e che tuttora mi
fa spuntare involontarie lacrime rileggendo brani come quello del ragazzo calabrese (peraltro attualissimo nell'Italia sempre più multiculturale).
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