giovedì 13 febbraio 2020

Mena di Caterina Malara



Stilluzzu 1908. Il figlio delle stelle di Simeone Carullo, edito da Leonida, ha recentemente riportato l’attenzione sul terremoto che sconvolse pure Pellaro. Sarebbe interessante che si raccogliessero le storie tramandate oralmente su quell’evento che, magari inconsciamente, continua ad essere parte di noi.

Mena è un racconto di Caterina Malara:

Viveva a Pellaro in una casupola in riva al mare, era figlia, sorella, vedova di pescatori. Saro, il marito, se l’era preso il mare, sette anni prima, in una notte di burrasca, insieme a due suoi amici. Non aveva figli, viveva sbrigando qualche faccenda domestica nelle case del vicinato, dove veniva spesso chiamata non perché ci fosse effettivo bisogno del suo aiuto, ma per creare un motivo valido per darle qualche soldo o provviste di viveri. Sapevano bene che non avrebbe mai chiesto nulla a nessuno, il suo orgoglio non lo avrebbe permesso. Sua sorella Maria, moglie di un vasaio e madre di tre bambini, l’aveva più volte invitata a trasferirsi da lei, avrebbero formato un’unica famiglia, e anche ‘Ntoni, il cognato, era dello stesso avviso. Ma Mena non aveva accettato. Non avrebbe mai e per nulla al mondo lasciato quell’abitazione modesta e ormai cadente in cui era stata, se non felice, almeno serena, accanto all’uomo col quale ancora giovanissima, appena quindici anni, aveva deciso di condividere la vita, sfidando il volere della sua famiglia, che avrebbe preferito per lei un giovane del paese a quel pescatore giunto dall’altra sponda dello stretto, di cui si ignorava tutto. La sua determinazione aveva avuto la meglio sul divieto dei genitori: avevano accettato il giovane siciliano.

Ora, vivendo ad un passo dal mare si illudeva di stare ancora vicina al povero Saro, ogni mattina ed ogni sera si inginocchiava di fronte alle onde dello Stretto e recitava un Requiem Aeternam e la cosa le era di grande conforto. Con l’avanzare degli anni era diventata un po' sorda, ma non se ne crucciava, anzi ne era quasi lieta perché quel piccolo difetto le consentiva di estraniarsi dalla realtà e restarsene in santa pace coi suoi pensieri. La mattina del 28 dicembre 1908 si alzò più tardi del solito, faceva freddo e non aveva lavori impellenti, il caldo del letto poi era piacevole. Quando finalmente aprì la porta e si accingeva alla solita preghiera mattutina, vide intorno alla sua casa e anche più in là, fin dove poteva arrivare il suo sguardo, uno spettacolo che la lasciò sgomenta, atterrita. Il mare aveva inghiottito tanta costa e con essa case e vegetazione, sulla spiaggia nessuna barca, guardando a sinistra vedeva tetti e chiome di alberi che emergevano dalle onde, sul lato opposto il mare era risalito di almeno dieci metri, si fece ripetute volte il segno della croce e si avviò per la strada che portava al paese. Nessuna casa era più in piedi, incontrava bambini e adulti che vagavano spaesati e storditi, impauriti e increduli, tutti piangevano e invocavano il nome di qualcuno. Da sotto le macerie arrivavano pianti di bimbi e lamenti strazianti e richieste d’aiuto, ma i pochi vivi, spesso feriti, non bastavano a dare soccorso. La disperazione spingeva, chiunque fosse in grado di farlo, a scavare a mani nude, urlando tra i singhiozzi ora un nome ora un altro. Tanti vagavano tra le rovine con lo sguardo perso nel vuoto, coi vestiti stracciati e sporchi di sangue; qua e là un piccolo incendio, segno che un focolare acceso o anche una semplice candela avevano fatto prender fuoco ai mobili o alle travi della casa crollata. Mena procedeva come un automa e tra sé pensava che era venuta la fine del mondo, il Signore aveva scatenato la sua collera sopra i peccatori, come aveva più volte minacciato Don Felice, il parroco del paese, parlando di Apocalisse nelle sue prediche.

Quasi senza rendersene conto arrivò a casa di sua sorella, trovò Ntoni afflitto seduto in terra con in braccio la figlia minore Anna, che si stringeva tremante al padre. Le bastò poco per capire che Maria e gli altri due figli giacevano senza vita sotto le macerie. Si inginocchiò e pregò per i morti poi prese in braccio la piccola Anna, avvolgendola nel suo scialle, convinse il cognato ad alzarsi e a seguirla a casa sua. Ai morti avrebbero pensato dopo. Nei giorni seguenti giunse la notizia che Reggio e Messina erano state in gran parte rase al suolo da un violento terremoto cui aveva fatto seguito un maremoto, una tragedia immane che aveva fatto migliaia di vittime sull’una e sull’altra sponda dello stretto. La potenza del sisma e la violenza del mare però avevano misteriosamente risparmiato la casetta di Mena, la debolezza del suo udito le aveva risparmiato di sentire il forte boato che alle 5:20:27 di lunedì 28 dicembre aveva accompagnato la forte scossa di terremoto.





«In questa sera di chiaro crepuscolo attendo inquieto, penna in mano e calamaio, che le stelle mi indichino il cammino. (…) È intollerabile non riuscire a spiegarsi. E come posso liberare il mio segreto se è segreto perfino a me stesso? Il segreto che il mondo può salvare è un sussurro inaudito, una parola rotta, un sospiro che muore tra i denti.» S. trova in un casolare sperduto e semidiroccato del suo paese, un mucchietto di lettere, intestate «Pellaro», datate tutte nell’autunno del 1908. Sono rivolte ad una «madre» morta – quindi, lettere non spedite, quasi un diario – e firmate «Sempre Vostro, Stidduzzu.» Ne è colpito in maniera assoluta e coinvolge il suo amico più caro, colui che in prima persona racconta la vicenda, in una ricerca, quasi una “caccia al tesoro” non priva di pericoli, della verità: «S. (…) appoggiò su una scrivania sghemba le lettere di Stidduzzu e mi spinse a leggerne qualche verso. E io lessi. Lessi e rilessi le parole più dolci mai udite, ma anche le più terribili. Lessi del “segreto che poteva salvare il mondo” (…) Lessi e rilessi e, mentre i miei occhi scorrevano sul rigo vedevo riemergere dalla polvere che ci aveva inghiottito le immagini della vecchia Pellaro: le sue strade, la sua gente, il mare cristallino. Sentivo la voce di Stidduzzu e i suoni della campagna, i grilli, il vento, talvolta il silenzio, quel silenzio che non esiste più.»
È il 2018 e comincia per i due tredicenni, alunni della scuola media “Don Bosco” (N.B.: quella reale è decisamente migliore di quella delineata nel libro), un’avventura che li porta a ricostruire l’identità del quasi coetaneo «’u ‘ncataturistiddi», orfano di padre e di madre, emarginato e «respinto dalla stessa matrice da cui era uscito, soverchiato dall’etichetta assurda della pazzia: “il pazzo… lo scemo del villaggio”», inascoltato profeta, che avrebbe potuto salvare la vita di molti, quando «u paisi si ndi iu all’ancallaria.» Scoprono, infatti, che cosa è successo quella notte apocalittica di fine dicembre 1908, quando terremoto e maremoto rasero al suolo Pellaro: «Dei 5000 abitanti che vivevano qui ne sono morti oltre 4000, trascinati dalla violenza del mare e rigettati poi lungo la spiaggia, dove dalla pietà dei superstiti furono alzati roghi, nei quali i cadaveri vennero gettati e bruciati. (…) Pellaro s’è inabissata, sprofondata sottoterra, sepolta da macerie e relitti: l’unico edificio rimasto in piedi è la chiesa della Madonnella, soltanto un po’ scalfita da una barca che ci è finita dentro.»
Un cammino di scoperta che porta S. ad una completa, e autodistruttiva, identificazione con Stilluzzu «due storie divise da un secolo, due strade che si incontrano, due fiumi che straripano» e il suo amico ad una repentina maturazione: da quasi bambino ad adulto. Stilluzzu 1908. Il figlio delle stelle del reggino Simeone Carullo, edito da Leonida, è una storia di amicizia, un racconto di formazione, una vicenda dell’oggi con «sullo sfondo la Pellaro dei tempi andati, quando ancora aveva una sua identità culturale ed esisteva al netto dei palazzi, del catrame, del pattume malavitoso (e non) che ne infama il nome.» Trama originale per un libro che, pur privilegiando i toni brumosi su quelli solari, parla di «indomita volontà di vita»: attraversato da un incombente senso di mistero, che lascia spazio al respiro ampio che passa in un secolo. Sarebbe bello che, in un eventuale successivo volume, Simeone Carullo provasse a indagare su un mistero su cui Stilluzzu 1908. Il figlio delle stelle tace. Com’è che, a Pellaro, allora comune autonomo ma sempre estrema periferia calabra, in un’epoca in cui i bambini che andavano oltre la seconda elementare difficilmente superavano le dita di una mano, Stilluzzu scrivesse lettere pressoché foscoliane?

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