«Il passato può e deve essere riscattato come un
mondo sommerso di potenzialità diverse, non compiute, ma suscettibili di future
realizzazioni. Un riscatto, un risarcimento, una restituzione che diventano un
esercizio morale attraverso cui pensare il presente non nella forma di “quello
che è”, ma nei termini di “quello che potrebbe essere”. In agguato ci sono la
retorica, le mitizzazioni del passato, le glorificazioni del buon tempo antico,
la scrittura di autori di successo che hanno fatto del passato, delle piccole
patrie, delle rovine, dei paesi abbandonati l’oggetto di una rivisitazione
neoromantica e di una riconquista nostalgica ad opera di chi è estraneo a quel
mondo. I paesi non hanno bisogno di celebrazione, ma di attenzione, devono
essere visti con la loro forza e la loro ombra. Con le lacrime e sangue che
pagano quelli che restano e che sono l’altro volto di quelli che, con lacrime e
sangue, arrivano. La questione è, dunque, se sia possibile completare il monito
di Alvaro che affermava la necessità di custodire memorie, verificando se sia
possibile pensare tracce, scarti, frammenti, rovine, paesaggi come una
geografia del presente.»
Quel che resta di Vito Teti, professore
ordinario di Antropologia culturale all’Unical, recentemente edito da Donzelli,
con una bellissima introduzione di Claudio Magris, è un rigoroso e robusto
saggio antropologico, con un ricco apparato bibliografico, (notevolissime le
pagine sull’emigrazione, sulla melanconia, sulla letteratura dell’abbandono).
Ma anche un vivido racconto autobiografico (bellissimo il racconto
dell’esperienza vissuta con le clarisse di Scigliano e la studentessa di
Corazzo) attraversato da una sensibile passione civile e da un sotteso lirismo,
sobrio ed emozionante.
Se, come è giusto che sia, le sue posizioni possono essere qui e là confutate e sempre messe in discussione, il saggio di Teti si candida autorevolmente tra i migliori pubblicati, quest’anno, da autori calabresi.
Un libro pieno di spunti di riflessione e colmo di emozioni, che andrebbe ampiamente letto e discusso.
Se, come è giusto che sia, le sue posizioni possono essere qui e là confutate e sempre messe in discussione, il saggio di Teti si candida autorevolmente tra i migliori pubblicati, quest’anno, da autori calabresi.
Un libro pieno di spunti di riflessione e colmo di emozioni, che andrebbe ampiamente letto e discusso.
In Calabria, ancora più drammaticamente che
altrove, «dopo decenni di esodo, fuga dalla montagna e dalla collina, discesa
sulle coste e corsa nelle città industriali del Nord o all’estero, i paesi, le
piccole comunità dell’interno, appaiono ormai marginali, residuali, morenti. L’abbandono
è un’esplosione, una detonazione lenta che frammenta, frattura, disintegra,
intenerisce. L’abbandono pone in questione la struttura del mondo che si
lascia; mette in tensione le relazioni; modifica la densità dei luoghi, cambia
la morfologia dell’abitato e degli spazi; il loro aspetto formale e i loro usi.»
Secoli di «invasioni, terremoti, malaria, mancanza di acqua, alluvioni, emigrazioni», il dramma della fine della civiltà contadina e la scomparsa, nel giro di un trentennio, anche di«quel mondo che abbiamo chiamato modernità, che ci aveva attratto, illuso, deluso e che non ci aveva fatto rimpiangere il buon tempo andato e antico, che ora invece evochiamo per capire, per sentire, per ripartire. (…) Non da una civiltà all’altra siamo passati, allora, ma da un’umanità a una non umanità.» hanno favorito l’abbandono di molte zone. «Molti paesi dell’interno ormai si svuotano per la scarsa qualità della vita, per la violenza, i contrasti, i litigi di cui sono capaci gli abitanti di paesi moribondi, e soprattutto per la presenza invasiva della ‘ndrangheta. (…) Le catastrofi (naturali, storiche, morali) sono figlie di una stessa vicenda e anche di una stessa mentalità, di analoghe dimenticanze e rimozioni, di degrado geo-antropologico, di degenerazione della società e della politica. Una catastrofe più terribile dei terremoti e delle alluvioni perché genera apatia, paura, desiderio di fuga e trasforma il paese in luogo di terremoto perpetuo.»
Di conseguenza, oggi, «… chi ha frequentazione non
superficiale dei luoghi di Calabria, è tentato di dire la bellezza insieme alle
rovine: accompagnata, segnata, informata dalle rovine. (…) Bellezza e rovine
non si escludono dunque, ma si richiamano, convivono. (…) Le due immagini
riflettono una realtà contraddittoria che non si esclude, ma include. (…) bello
e brutto coesistono nel paesaggio calabrese e contribuiscono a renderlo unico,
eccezionale: insieme suggestivo e “rovinato”, armonico e disordinato,
incantevole e caotico, affascinante e, talvolta, irritante. (….) Le nuove
costruzioni, rovine postmoderne, hanno finito con lo sconvolgere in maniera
definitiva aspetti importanti del paesaggio calabrese. Tratti di costa e aree
collinari e montane si presentano deturpati in modo irrevocabile. Ciò che non
hanno fatto le rovine del passato, hanno potuto le macerie moderne, facendo
emergere i tratti più degradati di un paesaggio ancora incantevole. Negli
ultimi decenni (…), il rovinoso disordine ha trionfato su un precario e labile
equilibrio, il brutto sul senso estetico. Rovine, reperti e siti archeologici
oggi concorrono a ridisegnare il paesaggio della regione e a generare un nuovo
senso di sé delle popolazioni. Non di rado sono diventate un elemento nuovo e
caratterizzante della bellezza della Calabria. (…) I miei viaggi in Calabria
negli ultimi anni si sono tradotti spesso in scoperta di devastazioni e
d’incuria, di scempi e di omissioni. Sia per la natura sia per quello che
restava delle costruzioni dell’uomo.»
Di fronte a questo dramma, «dopo le retoriche
dell’erranza e gli stereotipi di tanta letteratura di viaggio che non sa
cogliere la verità e la profondità del movimento del mondo in cui si torna, non
abbiamo bisogno di una retorica del restare, che non sappia guardare al mondo,
aprirsi. Naturalmente restare significa anche partire, e si può restare anche
vivendo altrove, come si può fuggire facendo finta di restare o cedendo alla
retorica del restare. L’essere rimasto, né atto di debolezza né atto di
coraggio, è un dato di fatto, una condizione. Che può diventare un modo di
essere, una vocazione se vissuto con problematicità, senza sudditanza, senza
soggezione, ma anche senza boria, senza compiacimento, senza angustia e
chiusure, con un’attitudine all’inquietudine e all’interrogazione. Esiste lo
sradicamento totale di colui che resta fermo in posti che cambiano, di colui
che si sente straniero nel posto in cui vive. Chi vive la condizione del
restare e dell’attesa di chi deve tornare, percepisce il dolore di chi parte e
anche il proprio, di chi rimane. Chi resta deve coltivare l’arte dell’attesa;
spesso deve custodire il mondo e gli affetti per colui che è partito e che
immagina e annuncia un ritorno. Spesso chi attende, come chi torna, deve
scontare una delusione. Deve affrontare la delusione di chi torna e trova il
mondo mutato e la propria delusione rispetto a colui che torna e gli appare
ormai uno straniero.»
«Per una serie di paradossi della storia, nel
periodo della scoperta e della valorizzazione delle culture locali,
dell’affermarsi di tematiche ambientaliste, della richiesta di turismo
culturale e di sviluppo sostenibile, – scrive Teti – la Calabria, le sue
montagne, le sue coste, i suoi boschi, i suoi monumenti, i suoi centri – con
tutte le distruzioni perpetrate – potrebbero diventare il luogo in cui
affermare, sperimentare, tentare nuovi modelli, anziché praticare e costruire
nuove rovine. Perché ciò avvenga ci sarebbe bisogno di persuasione, ma invece
prospera, continua a prosperare, la retorica. La Calabria – ogni suo abitante,
ognuno di noi – si trova di fronte a un bivio, a una scelta, a una scommessa.
Deve decidersi (…) senza raccontarsi favole, senza inventare leggende. La sua
cultura, le sue tradizioni, la sua storia, il suo paesaggio, le sue bellezze
possono diventare oggetto di retorica, essere mummificate in una sorta di
contemplazione sterile o di rimpianto inconcludente; essere ridotti a luoghi di
interventi strumentali e di affari, o possono costituire, faticosamente,
fantasiosamente, percorsi di riconoscimento, di appaesamento, di appartenenza,
di un nuovo senso dei luoghi e di una nuova speranza.»
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