martedì 29 agosto 2017

Quel che resta. L'Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni di Vito Teti






«Il passato può e deve essere riscattato come un mondo sommerso di potenzialità diverse, non compiute, ma suscettibili di future realizzazioni. Un riscatto, un risarcimento, una restituzione che diventano un esercizio morale attraverso cui pensare il presente non nella forma di “quello che è”, ma nei termini di “quello che potrebbe essere”. In agguato ci sono la retorica, le mitizzazioni del passato, le glorificazioni del buon tempo antico, la scrittura di autori di successo che hanno fatto del passato, delle piccole patrie, delle rovine, dei paesi abbandonati l’oggetto di una rivisitazione neoromantica e di una riconquista nostalgica ad opera di chi è estraneo a quel mondo. I paesi non hanno bisogno di celebrazione, ma di attenzione, devono essere visti con la loro forza e la loro ombra. Con le lacrime e sangue che pagano quelli che restano e che sono l’altro volto di quelli che, con lacrime e sangue, arrivano. La questione è, dunque, se sia possibile completare il monito di Alvaro che affermava la necessità di custodire memorie, verificando se sia possibile pensare tracce, scarti, frammenti, rovine, paesaggi come una geografia del presente.»

Quel che resta di Vito Teti, professore ordinario di Antropologia culturale all’Unical, recentemente edito da Donzelli, con una bellissima introduzione di Claudio Magris, è un rigoroso e robusto saggio antropologico, con un ricco apparato bibliografico, (notevolissime le pagine sull’emigrazione, sulla melanconia, sulla letteratura dell’abbandono). Ma anche un vivido racconto autobiografico (bellissimo il racconto dell’esperienza vissuta con le clarisse di Scigliano e la studentessa di Corazzo) attraversato da una sensibile passione civile e da un sotteso lirismo, sobrio ed emozionante.

Se, come è giusto che sia, le sue posizioni possono essere qui e là confutate e sempre messe in discussione, il saggio di Teti si candida autorevolmente tra i migliori pubblicati, quest’anno, da autori calabresi.

Un libro pieno di spunti di riflessione e colmo di emozioni, che andrebbe ampiamente letto e discusso.
In Calabria, ancora più drammaticamente che altrove, «dopo decenni di esodo, fuga dalla montagna e dalla collina, discesa sulle coste e corsa nelle città industriali del Nord o all’estero, i paesi, le piccole comunità dell’interno, appaiono ormai marginali, residuali, morenti. L’abbandono è un’esplosione, una detonazione lenta che frammenta, frattura, disintegra, intenerisce. L’abbandono pone in questione la struttura del mondo che si lascia; mette in tensione le relazioni; modifica la densità dei luoghi, cambia la morfologia dell’abitato e degli spazi; il loro aspetto formale e i loro usi.»

Secoli di «invasioni, terremoti, malaria, mancanza di acqua, alluvioni, emigrazioni», il dramma della fine della civiltà contadina e la scomparsa, nel giro di un trentennio, anche di«quel mondo che abbiamo chiamato modernità, che ci aveva attratto, illuso, deluso e che non ci aveva fatto rimpiangere il buon tempo andato e antico, che ora invece evochiamo per capire, per sentire, per ripartire. (…) Non da una civiltà all’altra siamo passati, allora, ma da un’umanità a una non umanità.» hanno favorito l’abbandono di molte zone. «Molti paesi dell’interno ormai si svuotano per la scarsa qualità della vita, per la violenza, i contrasti, i litigi di cui sono capaci gli abitanti di paesi moribondi, e soprattutto per la presenza invasiva della ‘ndrangheta. (…) Le catastrofi (naturali, storiche, morali) sono figlie di una stessa vicenda e anche di una stessa mentalità, di analoghe dimenticanze e rimozioni, di degrado geo-antropologico, di degenerazione della società e della politica. Una catastrofe più terribile dei terremoti e delle alluvioni perché genera apatia, paura, desiderio di fuga e trasforma il paese in luogo di terremoto perpetuo.»

Di conseguenza, oggi, «… chi ha frequentazione non superficiale dei luoghi di Calabria, è tentato di dire la bellezza insieme alle rovine: accompagnata, segnata, informata dalle rovine. (…) Bellezza e rovine non si escludono dunque, ma si richiamano, convivono. (…) Le due immagini riflettono una realtà contraddittoria che non si esclude, ma include. (…) bello e brutto coesistono nel paesaggio calabrese e contribuiscono a renderlo unico, eccezionale: insieme suggestivo e “rovinato”, armonico e disordinato, incantevole e caotico, affascinante e, talvolta, irritante. (….) Le nuove costruzioni, rovine postmoderne, hanno finito con lo sconvolgere in maniera definitiva aspetti importanti del paesaggio calabrese. Tratti di costa e aree collinari e montane si presentano deturpati in modo irrevocabile. Ciò che non hanno fatto le rovine del passato, hanno potuto le macerie moderne, facendo emergere i tratti più degradati di un paesaggio ancora incantevole. Negli ultimi decenni (…), il rovinoso disordine ha trionfato su un precario e labile equilibrio, il brutto sul senso estetico. Rovine, reperti e siti archeologici oggi concorrono a ridisegnare il paesaggio della regione e a generare un nuovo senso di sé delle popolazioni. Non di rado sono diventate un elemento nuovo e caratterizzante della bellezza della Calabria. (…) I miei viaggi in Calabria negli ultimi anni si sono tradotti spesso in scoperta di devastazioni e d’incuria, di scempi e di omissioni. Sia per la natura sia per quello che restava delle costruzioni dell’uomo.»

Di fronte a questo dramma, «dopo le retoriche dell’erranza e gli stereotipi di tanta letteratura di viaggio che non sa cogliere la verità e la profondità del movimento del mondo in cui si torna, non abbiamo bisogno di una retorica del restare, che non sappia guardare al mondo, aprirsi. Naturalmente restare significa anche partire, e si può restare anche vivendo altrove, come si può fuggire facendo finta di restare o cedendo alla retorica del restare. L’essere rimasto, né atto di debolezza né atto di coraggio, è un dato di fatto, una condizione. Che può diventare un modo di essere, una vocazione se vissuto con problematicità, senza sudditanza, senza soggezione, ma anche senza boria, senza compiacimento, senza angustia e chiusure, con un’attitudine all’inquietudine e all’interrogazione. Esiste lo sradicamento totale di colui che resta fermo in posti che cambiano, di colui che si sente straniero nel posto in cui vive. Chi vive la condizione del restare e dell’attesa di chi deve tornare, percepisce il dolore di chi parte e anche il proprio, di chi rimane. Chi resta deve coltivare l’arte dell’attesa; spesso deve custodire il mondo e gli affetti per colui che è partito e che immagina e annuncia un ritorno. Spesso chi attende, come chi torna, deve scontare una delusione. Deve affrontare la delusione di chi torna e trova il mondo mutato e la propria delusione rispetto a colui che torna e gli appare ormai uno straniero.»

«Per una serie di paradossi della storia, nel periodo della scoperta e della valorizzazione delle culture locali, dell’affermarsi di tematiche ambientaliste, della richiesta di turismo culturale e di sviluppo sostenibile, – scrive Teti – la Calabria, le sue montagne, le sue coste, i suoi boschi, i suoi monumenti, i suoi centri – con tutte le distruzioni perpetrate – potrebbero diventare il luogo in cui affermare, sperimentare, tentare nuovi modelli, anziché praticare e costruire nuove rovine. Perché ciò avvenga ci sarebbe bisogno di persuasione, ma invece prospera, continua a prosperare, la retorica. La Calabria – ogni suo abitante, ognuno di noi – si trova di fronte a un bivio, a una scelta, a una scommessa. Deve decidersi (…) senza raccontarsi favole, senza inventare leggende. La sua cultura, le sue tradizioni, la sua storia, il suo paesaggio, le sue bellezze possono diventare oggetto di retorica, essere mummificate in una sorta di contemplazione sterile o di rimpianto inconcludente; essere ridotti a luoghi di interventi strumentali e di affari, o possono costituire, faticosamente, fantasiosamente, percorsi di riconoscimento, di appaesamento, di appartenenza, di un nuovo senso dei luoghi e di una nuova speranza.»

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