don Peppino col presidente Ciampi, Nisida 30 agosto 2002 |
Alle otto del mattino, un gran
pentolone di fagioli sobbolle sul fuoco – sono
per stasera, per i ragazzi. In un
padellone, verdeggiano, già pronti, gli
zucchini trifolati e, in una padella meno grande, sono già cotti gli zucchini
con i gamberi. È già pronta la besciamella – è per il primo dei ragazzi, la metto negli zucchini. E sono pronti
il latte e il caffè per la colazione. Don Peppino sta imbiondendo una manciata
di agli e aperto un bel po’ di buattoni di
pelati per la salsa – questa è per la
mensa di Sant’Egidio – da versare in un altro grande pentolone.
Oggi è venerdì e, oltre il
normale centinaio di pasti quotidiani (a pranzo; più l’ottantina a colazione e
a cena), la cucina di Nisida ne sforna un altro centinaio per la mensa dei poveri.
Ma il di più di fatica non turba
minimamente don Peppino che – maglietta bianca a maniche corte, grembiule
anch’esso bianco – continua ad affrettarsi
lentamente. Mescola i legumi, apre le scatole, versa il latte nel termos,
dà un ultimo giro di cucchiaio di legno alla besciamella e, intanto, parla con
l’aiuto cuoca, saluta l’agente che, infreddolito, viene a chiedere un sorso di
caffè, si lascia dare il consueto bacio di buongiorno dall’infermiera, e
risponde alle mie domande.
Sono arrivato a Nisida nel 1978. Facevo il rosticciere e il cuoco,
lavoravo dalle cinque della mattina alle cinque del pomeriggio. Quando mi hanno
chiamato perché c’era un posto di lavoro a Nisida, mi sono preso dei giorni di
ferie, perché il mio datore di lavoro non mi voleva far andare via, e sono
venuto a fare la prova. Con l’esperienza che avevo, si trattava di una prova
facile, l’ho superata subito. Io non volevo accettare perché fuori guadagnavo
di più 700-800 mila lire, qui me ne davano 300, ma mia moglie mi ha
incoraggiato: Non devi pensare ai soldi, devi pensare prima di tutto a stare
bene tu.
Che don Peppino qui stia bene, lo
si legge nei suoi occhi piccoli e luminosi, nel sorriso buono, nell’aria di
famiglia che tutta questa cucina emana.
Il suo orario di lavoro va dalle
7 alle 13. Anzi: andrebbe. Perché, lui, da Nisida, non se ne va mai prima delle
15.30 e, comunque, mai prima che il direttore abbia finito di mangiare. Quando è morto il padre e noi siamo andati
al funerale, lui mi ha detto: Peppino, da oggi ti adotto come padre. Sono
parole che non dimenticano.
Un po’per questo, un po’ perché a casa non mi fido proprio di stare, don
Peppino continua il suo lavoro: Sono nato
nel ‘43, il direttore non mi vuole lasciare, e io non me ne voglio andare.
Di ragazzi, don Peppino ne ha
conosciuti migliaia. Parla di Victor, di Vincenzo, di Roberto, ne ricorda i
volti, il luogo di nascita, gli atteggiamenti: Sono nato a Pontecorvo e, quand’ero giovane, non ero tanto docile, ne
ho fatte anch’io di marachelle, anche se, ringraziando Dio, non ho mai fatto
guai. Quando sono arrivato qui, mi sono immedesimato nelle loro storie. Ero
giovane, ma più grande di loro e pensavo di fare qualcosa di buono per loro e
passando il tempo questo desiderio si è fatto più forte. Alcuni me li sono
portati a casa e qualcuno mi ha pure rubato…Stare con i ragazzi, a Nisida mi è
servito anche nella mia esperienza di padre. I figli, li ho guardati con occhi
particolari e oggi sono orgoglioso dei miei giovanotti.
Se l’elenco dei ragazzi è
infinito, non scherza neppure quello delle personalità importanti che don
Peppino ha conosciuto a Nisida. A cominciare da Eduardo e continuando con
attori, scrittori, cantanti. E ministri. Tutti quelli, ma non solo, che, in
questi anni, si sono succeduti al dicastero della Giustizia. E i presidenti
della Repubblica. Napolitano, naturalmente. Ma anche Cossiga, a cui don Peppino
tuttora non perdona d’aver rifiutato d’assaggiare l’enorme torta – un
rettangolo di bellezza e dolcezza – preparata in suo onore. E Scalfaro che,
sottrattosi alla scorta e alle personalità, si chiuse con i ragazzi nel
refettorio. Fuori, nel cortile, in tanti andavano avanti e indietro,
preoccupati e tesi. E, dentro, tutti i ragazzi accoccolati a terra, su due
sedie il presidente e la figlia, Marianna e, in piedi, don Peppino. Tutti,
fuori, a chiedersi, molti ad angustiarsi sui possibili temi della conversazione
tra ragazzi e presidente e il presidente
e i ragazzi ridevano, raccontando barzellette. E Ciampi. Due giorni a
preparare il buffet, il presidente che ammira ma dice di non poter accettare;
don Peppino che insiste, il presidente che prende mezzo babà e commenta: una meraviglia.
Non c’è ospite di Nisida che,
almeno per un caffè – raffinato; con cremina di panna e zucchero – non sia
passato dalla cucina di don Peppino: Il
refettorio non esisteva, la cucina stava sotto alla prima sezione. Per
distribuire il cibo avevamo un’ape e, a quel tempo si usavano le posate d’acciaio,
c’era sempre qualche ragazzo che le infilzava nelle gambe di qualche compagno.
Quando, in seguito al terremoto
dell’Ottanta, a Nisida arrivarono anche le donne del carcere di Pozzuoli, i
pasti raddoppiarono: 120 (circa) per i ragazzi, altrettanti, se non di più per
le donne. E, per dare una mano a don Peppino arrivò a Nisida anche la moglie.
Lei, ora, si dedica ai nipoti.
Lui, continua a cucinare, alternandosi con Ciro e con le aiuto-cuoche.
C’è una tabella del ministero, che dice che cosa i ragazzi devono
mangiare, l’hanno fatta dietologi e psicologi. Noi la rispettiamo, ma cerchiamo
pure di assecondare i ragazzi. Tra di loro, le ministre non vanno di moda e,
così, quando possiamo, spuntano gli gnocchi, la pasta al forno, la lasagna, i
cannelloni. Il segreto è metterci passione. Non è che, perché stiamo in
carcere, bisogna fare una sbobba. Diciamo che noi siamo una trattoria
casareccia, che facciamo una cucina di casa.
E se il nuovo Presidente della
Repubblica viene a visitare Nisida? Lo accoglieremo facendogli onore. E il
menù? Non è un problema. Ce l’ho in mente già.
Questo mio ritratto di don Peppino
è tratto dal numero di Nisida News intitolato
Nisida, ‘o magnà e l’Expo, con cui
abbiamo voluto avvicinarci all’evento milanese.
Vi si ritrovano – insieme alla
carrellata di storie su “Io sono un panino”, tratte dal libro cui abbiamo
lavorato lo scorso anno Parole come pane.
La sintassi di Nisida – gli scritti dei ragazzi/e sul loro rapporto con il cibo
(piatti preferiti, ricette con cui si misurano).
Argomento, il cibo, di cui si
parla spesso anche nelle nostre aule e non solo nei momenti in cui ci si occupa
di educazione alimentare.
“(Si
parla, ndr)... Di quello preferito. Di quello che ciascuno sa prepararsi da sé
(non ho riscontri, ma, a naso, il numero dei ragazzi di Nisida che dicono di
saper cucinare è più alto dei loro coetanei di fuori; e buona parte di
chi sa cucinare l’ha appreso dal padre, che, a sua volta, ne aveva fatto
esperienza in carcere). Ancora di più, del cibo che i familiari portano nei colloqui
del sabato. Prosciutto, cotolette, pollo. Uno dei segni privilegiati del legame
con la propria famiglia, della cura che si ricevono da madri e mogli. Beni che
vengono condivisi nelle stanze, ricreando il senso, festivo, di casa. E del
cibo sognato: ovvero, la vagheggiata, grande abbuffata del ritorno in libertà:
la famiglia, gli amici, tutti intorno ad un tavolo pieno di delizie: il
banchetto come desiderio, attesa, misura, sogno e concretezza della piena
felicità”.
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