La voce era troppo allegra per
poter annunciare una disgrazia e Francesca respirò forte per addomesticare l’ansia
d’uno squillo di telefono inatteso troppo per ora e interlocutore.
Il fatto era – le comunicò Luigi,
un lontano cugino – che, in un cassettone tirato fuori per rimodernarlo, aveva
trovato un mucchietto di lettere che la comune zia Margherita aveva scritto al
marito militare una settantina d’anni prima, anzi di più visto che si
concludevano con l’inizio della seconda guerra mondiale.
Lettere belle, d’amore domestico,
con tante notizie sui parenti. Magari, lei che scriveva, le potevano
interessare. Gliele avrebbe mandate per posta l’indomani.
Da ragazza, Francesca aveva
sempre pensato che, un giorno, l’avrebbe scritta la storia della sua famiglia. Raccoglieva
particolari sulle vicende dei nonni e aspettava che, crescendo, quel vento
confuso che si portava dentro si sarebbe placato in giuste parole.
Più grande, al quel progetto
non pensava più. Almeno, quando la mente ci tornava, evitava di soffermarcisi
su. Nonostante tutti gli appunti presi, troppo le restava sconosciuto. Avrebbe
dovuto saperne cinquemila per scrivere cento cose. Era fatta così. A scuola,
sempre voti alti, ma ottenuti con fatica. Quand’era preparata da otto e mezzo
poteva spuntare anche il nove, ma nei rari casi in cui era preparata per il
sette non rendeva per la sufficienza.
Ogni tanto riguardava gli
appunti, le veniva voglia di metterli almeno in chiaro, di lasciarli così per
chi sarebbe venuto dopo. Magari, chissà, il nipote di un nipote – se mai
avrebbe avuto un nipote – sarebbe potuto tornare indietro di qualche secolo
nelle vicende di famiglia, poi si diceva che non era il caso: le memorie
valgono per chi ce l’ha già in cuore e, quanto agli scritti, di testi che non
valgono niente se ne cade il mondo, inutile aggiungerne altri.
Eppure, ogni volta che – e negli
ultimi anni le era capitato spesso – leggeva libri elaborati sulla base di
lettere e diari degli avi e delle ave degli autori, le veniva una strizza allo
stomaco. Ecco, a lei quello non era dato, perché i suoi avi erano tutti
contadini e di lettere e diari neppure a sognarli.
Le lettere arrivarono in una
vecchia scatola da stivali, ordinate in mucchietti raccolti in nastrini da
bomboniere. Ne aprì una a caso. La grafia rivelava che, chi scriveva, a scuola
c’era andata poco, forse fino alla seconda elementare. Gli errori di ortografia
non intralciavano il racconto. Chi scriveva, scriveva per dirsi e per dire
tutto il loro mondo a chi era lontano, ogni parola era un arco che si tendeva
da un’anima all’altra.
Francesca si fermò a metà del
terzo foglietto. Quelle lettere potevano essere la sua piccola miniera. Non era
precisamente quello che da piccola avrebbe voluto scrivere ma, a lavorarci un
po’, davanti a lei c’era il suo romanzo.
Si perse nella melodia di questo
pensiero solo per un istante, perché si accorse di sentirsi accaldata e di
trattenere il respiro. Non era a suo agio. Di più, provava quasi un senso di
vergogna come se stesse invadendo un privato che non le apparteneva, come se
rimanesse volontariamente ad osservare una nudità che solo per caso le era
apparsa davanti. Ripose la lettera nella scatola e trovò per la scatola un
posto in fondo all’armadio, dietro i maglioni troppo vecchi per essere
indossati, ma che non si sentiva di gettare.
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