“Perché mi state guardando?”
Quante volte – sguardo torvo, tono alterato – un ragazzo mi ha rivolto questa frase con l’atteggiamento di chi avrebbe voluto prendermi a botte. La cosa più strana – e molto difficile per lui da accettare nonostante gli venisse ripetuto e ripetuto – è che non “lo stavo guardando”, ovvero “osservando”, ma, semplicemente, era davanti alla mia vista: stava lì, in quell'aula, in quella posizione ed io, anche volendo, nonostante l’acclarata miopia, non potevo non vederlo.
E quante volte, una mattinata di scuola magari calma si è incrinata per un’impercettibile striscia/macchia/riga che un fortuito contatto aveva procurato ad una scarpa. Una delle mie colleghe aveva sempre a disposizione un cancella macchie da scarpe: una sorta di bacchetta magica che potesse far rientrare momenti di acuto nervosismo.
Due piccoli frammenti tra i tanti che mi sono tornati in mente davanti alla tragica fine di un onesto ragazzo la cui colpa – peraltro non commessa – sarebbe stata quella di aver sfiorato la scarpa di un quasi coetaneo.
Troppi ragazzi di Napoli crescono con una scorza apparentemente coriacea, una
corazza di durezza e, insieme, senza pelle: incapaci di gestire “incidenti” da
nulla, tesi a difendere il loro “territorio” come se si sentissero sempre sull’orlo
d’essere “invasi”. Ragazzi che non hanno sviluppato un senso equilibrato di se
stessi, violenti per un magma di aggressività e un eccesso di insicurezza, reattivi, più che alla realtà,
alle loro tensioni, alle stratificate mancanze di cura e di attenzioni.
Ovvero – ripeterlo sembra una litania, ma così è – c’è,
nella nostra società, un tuttora inevaso, enorme, problema educativo.
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