“E se sostituissimo le tende?”
La signora Smith e l’infermiera Rooke
stavano prendendo il té nel salottino piccolo che, al tramonto, assumeva toni
dorati. Chiacchieravano, immaginando cambiamenti che rendessero più gradevole
la permanenza a casa loro di Walter e Mary, i figli di Anne Elliott e del
capitano Wentworth.
Anne e il marito si sarebbero
assentati per una settimana: avrebbero partecipato, a Londra, ai festeggiamenti
per l’incoronazione di Giorgio IV. La signora Smith si era
offerta di trasferirsi momentaneamente a Kellynch-Hall, ma i bambini avevano
ottenuto di spostarsi a casa delle due signore. “Faremo anche noi un viaggio”,
aveva detto Walter, il più grandicello, accompagnato, a mo’ di coro, dai “sì,
sì” di Mary. Anne aveva acconsentito, sicura che i bambini si sarebbero trovati
in un ambiente familiare, e al capitano Wentworth faceva piacere che i figli
crescessero forti e senza timori di affrontare nuove esperienze.
Erano ormai passati sette anni da
un pomeriggio indimenticabile. La signora Smith, grazie alle precise
informazioni dell’infermiera Rooke, sua massima fonte di conoscenza su quanto
accadeva a Bath, aveva svelato ad Anne Elliot, cara amica dai tempi del
collegio, che le intenzioni del suo corteggiatore, il cugino William Elliot,
non erano del tutto limpide. La rivelazione aveva confermato Anne nel
sentimento per Wentworth. Otto anni dopo essersi
sottomessa alla persuasione,
esercitata su di lei da lady Russel e
senza più recriminazioni sul passato, Anne aveva ormai una piena consapevolezza
di sé.
Il matrimonio tra Anne e il
capitano Wentworth aveva rafforzato l’amicizia tra la già signorina Elliot e la
signora Smith, dando a quest’ultima un nuovo e fidato amico. Grazie
all’interessamento del capitano Wentworth, la signora Smith aveva recuperato la
proprietà del marito nelle Indie Occidentali e incrementato le sue rendite. La
sua salute era molto migliorata e Rooke, già infermiera a ore e confidente nel
tempo libero, era rimasta costante, fidata e gradevole compagnia delle sue
giornate. Vivevano insieme non lontano da Kellynch-hall. Gaiezza e vivacità
mentale animavano le loro conversazioni, che occupavano buona parte della loro
giornata e sembravano a entrambe già sufficienti a dare senso alle loro vite. Senso
che si faceva più gioioso e pieno quando vi partecipava anche Anne. Talvolta vi
si univa pure lady Russel o la signora Croft: la prima le arricchiva con una
saggezza resa più duttile dal tempo e l’altra con una freschezza che il tempo
non aveva offuscato. Quand’erano sole, la signora Smith e Rooke non frenavano
le battute su William Elliot. Andato a monte il matrimonio con Anne, sir
William, dopo una fase di convivenza, s’era convinto a sposare la signora Clay,
donna non priva di furbizia, se non di intelligenza, e modi garbati, che gli
facevano, però, rimpiangere le doti di livello ben più alto di Anne. Elizabeth
– già non poco infastidita dall’essere rimasta l’unica non sposata delle tre
sorelle Elliot – aveva sofferto il matrimonio di Willian e della signora Clay
come una doppia sconfitta personale, quasi un complotto ordito contro di lei
dall’uomo che aveva immaginato di poter sposare e dalla donna che aveva incautamente
eletta ad amica, preferendo la sua compagnia a quella della sorella. Cercando
la rivincita rivolse le sue attenzioni ad un vedovo, né giovane né bello, che,
al titolo di baronetto, accompagnava lo stesso sprezzo nobiliare ma molti meno debiti
di sir Walter. Si sposarono qualche anno dopo Anne e rimasero a vivere a Bath
insieme al padre di lei che, dopo il matrimonio della signora Clay, non diede
mai più sospetto di pensare ad accasarsi. Su Elizabeth, sui suoi modi, sul suo
sguardo steso come un tappeto davanti a chi più poteva vantare titoli di
nobiltà e cieco davanti a chi non considerava socialmente degno d’attenzione,
la signora Smith e Rooke trovavano sempre, con molto conforto, di che
spettegolare.
“Cominciamo col controllare la
biancheria”, disse la signora Smith dopo aver inzuppato nel te l’ultimo
pasticcino e si avviò, insieme a Rooke, nella sua camera da letto, dove c’erano
due grandi bauli. Da uno di questi, tirò fuori lenzuola, federe e copriletto. Ce
n’erano in quantità. Era già estate, non ci sarebbe stato bisogno di coperte,
neppure leggere. Poi, tirò fuori le asciugamani e la biancheria da bagno: e,
anche di questa, ce n’era più che a sufficienza.
“Saranno belle giornate – disse
Rooke – Sono bambini ben educati, i più bravi che abbia mai visto”.
“Sì, hanno una guida sicura nella
madre e nel padre – osservò la signora Smith – Sono affettuosi senza
affettazione e obbedienti senza bisogno di moine.” Rimase un attimo
sovrappensiero e aggiunse: “Vi ricordate della signora Musgrove, la suocera di
Mary? Diceva che Anne sapeva trattare i bambini, mentre sua sorella viziava i
figli tanto che si era costretti, per farli stare buoni, a riprenderli continuamente
e a rimpinzarli di dolci.”
Rooke sorrise abbassando
ripetutamente la testa in un “sì” e continuò: “Quando stavo al servizio della
signora Wallis, la cuoca faceva per lei una torta di fragole da rimettere in
piedi i malati. I bambini Wentworth sono sani come pesci, ma la mangerebbero
volentieri.”
“Avete la ricetta?”
“Ecco…”
Era la prima volta, in tanti anni
di frequentazione, che la signora Rooke perdesse la parola. Solo dopo aver
bevuto un’altra tazza di té, riuscì a ricomporsi dalla folla di emozioni che le
si erano accalcate in petto. “Vedete – disse – quando ci siamo conosciute, non
avevo molti soldi per comprare libri e scrivevo un diario per leggere le mie
stesse storie. La ricetta l’ho appuntata in quelle pagine. Ma quel diario non
ce l’ho più. A Bath ho conosciuto una signorina. Non ho mai visto occhi brillanti
come i suoi: parevano venire da un altro mondo e andare verso un altro mondo.
Le raccontai di sir William, di Anne Elliott, di voi, di quel pomeriggio in cui
le avete riferito quello che avevo saputo in casa del colonnello Wallis. Le feci
leggere il mio diario. Restituendomi il quaderno, fece molti complimenti sul
mio scritto. Ebbi l’impulso di regalarglielo. Accettò con garbo. Lo portò al
petto, mi ringraziò e mi abbracciò. Disse che l’avrebbe utilizzato per un suo
romanzo. Passò poco tempo e seppi che era morta. Ma, dopo, quel romanzo è stato
davvero pubblicato. L’ho letto e lo tengo nascosto tra le mie poche cose
preziose.”
La signora Smith l’ascoltava, la
bocca aperta in un silenzioso “o” di incredulità.
“La nostra storia!?!”
“Sì. E con i nostri stessi nomi…”
“Com’è possibile?”
“Ci ho pensato tanto. Si sarà
convinta che, quello, non era un diario, ma una storia inventata…”
“Rooke, tu romanziera?”, rise la
signora Smith.
Rise anche Rooke, poi si fece
seria, quasi commossa: “Già… In fondo, noi due viviamo solo perché raccontiamo
sempre storie. E anche la nostra vita non è che un romanzo.”
Racconto scritto per il Concorso Jasit (Jane Austen Society
of Italy) dedicato a personaggi minori della Austen.