«Contrariamente a quanto si ritiene, Napoli non è compresa
tra le prime cinquanta città più violente al mondo per numero di omicidi. (…)
Napoli non è neanche la città con più omicidi in Europa in rapporto alla
popolazione. (…) Neppure in Italia
Napoli è la città con il maggior numero di omicidi in rapporto al numero di
abitanti.» Eppure «lo stato dell’ordine pubblico a Napoli e nella sua area
metropolitana» suscita costante interesse per la combinazione di vari fattori
tra cui la «“radicalizzazione” violenta di una parte consistente dei
giovanissimi dei quartieri».
Con Teneri assassini –
Il mondo delle baby gang a Napoli, recentemente pubblicato da Marotta e
Cafiero – bellissimo titolo, che ben fa comprendere la situazione di
carnefici-vittime di molti ragazzini, buona veste grafica e ricca bibliografia
– Isaia Sales offre un’attenta disamina della «particolarità» ed «esplosività
della questione minorile a Napoli e nel suo hinterland.»
Fenomeno che affonda le sue radici in anni lontani, ma che
si presenta, ora, in forme inedite: «Non è solo camorra e al tempo stesso non è
solo banale esplosione di violenza incontrollata. È invece un particolare e
impressionante approdo della questione giovanile in una grande area urbana
senza mezzi economici, culturali e sociali di integrazione, e con una lunga
tradizione criminale alle spalle. (…) Chiameremo questo fenomeno gangsterismo sociale.» Tanti
giovanissimi napoletani crescono in una sorta di gabbia, convinti che «la
carriera criminale sia l’unica possibilità di esistenza, la sola via per
raggiungere la cosa che più conta per loro: i soldi.»
Sorretta da un’ampia riflessione storica – belle, a questo
proposito, le pagine dedicate alla letteratura che ha trattato di minori e
crimini nelle grandi città europee – l’analisi di Sales si sofferma sulle
condizioni socio-economico-culturali che producono un numero alto di minori napoletani
coinvolti in attività malavitose, come non si registra in nessuna città
italiana.
«Quando si leggono i dati sul rapporto strettissimo tra
tassi di disoccupazione, tassi di abbandono scolastico, precedenti penali nel
nucleo familiare e tassi di criminalità minorile, non si può che restare
impressionati da una così implacabile connessione. I dati ci dicono che è
possibile prevedere in largo anticipo in quali quartieri, in quali rioni, in
quali scuole (pochissimo frequentate), in quali famiglie, in quali classi di
età si formeranno i futuri ospiti degli istituti di pena minorili e
successivamente delle carceri per adulti.»
Una realtà drammatica, non determinata dal destino o da
fattori “genetici”, modificabile solo affrontando «le condizioni sociali in cui
vivono e si formano migliaia e migliaia di persone». Eppure, contrariamente ad
anni in cui qualche tentativo di integrazione è stato attuato, nell’attuale
fase storica «se si esclude il lavoro dei preti, dei maestri di strada, di
alcune scuole e di alcune associazioni di volontariato, chi delle istituzioni
si pone più l’obiettivo dell’integrazione? E se alcuni se lo pongono, quali
strumenti e risorse hanno nelle loro mani?»
Ma è proprio l’urgenza di rompere la connessione tra
condizioni socio-economico-culturali e devianza/delinquenza minorile che anima
l’analisi di Sales e lo porta a fare delle proposte concrete.
Sales suggerisce di studiare i ragazzi che, nelle stesse
situazioni ambientali di coloro che delinquono, seguono percorsi di vita
socialmente positivi e quelli che, pur provenendo da famiglie camorriste, si
allontanano dal previsto “destino delinquenziale”. Gli studiosi di scienze sociali
potrebbero trarre «insegnamenti per mettere a punto adeguate strategie di
intervento.»
Indispensabile intervenire non dopo i quattordici anni,
quando il reato rende “visibili” ragazzi fino a quel momento ignorati dallo
Stato, ma «bisogna andarli a prendere (cioè occuparsene) prima, prima che ci
mostrino con i loro atti illegali quanto non siamo riusciti a fare. Lo Stato
paga dopo (con risorse, personale impegnato, strutture attivate) quello che non
ha impedito prima.»
Sarebbe opportuno, per Sales, che «lo Stato paghi la
famiglia che manda i figli a scuola, che riversi sulla famiglia di appartenenza
risorse per far studiare i figli. (…) Si può immaginare un prestito alla
nascita, che viene rinnovato sulla base della frequenza scolastica per tutti
gli anni di obbligo, un vantaggio che si perde se i figli non studiano.»
C’è anche la proposta di una scuola di elevata qualità e
collegata alla formazione lavorativa per chi finisce in carcere, l’Erasmus per
i ragazzi a rischio e l’idea di sperimentare il ribaltamento del metodo Di
Bella: non lo spostamento del ragazzo deviante
in altra famiglia/altra località, ma una messa in prova che riguarda tutta
la famiglia di appartenenza.
Proposte che meriterebbero l’apertura di un dibattito
serrato e non limitato alla realtà napoletana. Se, infatti, i numeri dei
ragazzi napoletani finiti nel circuito penale mostrano la specificità e gravità
dell’emergenza educativa della città partenopea, il paese nel suo insieme, e in
specie il Sud, deve ai suoi ragazzi un’attenzione decisamente maggiore.
Soprattutto dopo che due anni di pandemia hanno aggravato le già preesistenti
difficoltà di una crescita serena.
Pubblicato su Zoomsud
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