Dentro e oltre il silenzio, le speranze, le paure, le stanchezze, la rassegnazione di questi giorni, c’è un urlo. Fatto di tanti cerchi concentrici di urla. Qualcuno prorompe, magari scomposto, altri restano serrati dietro labbra mute. Ma tutti stanno lì. Nell’aria di questa primavera galleggia un vulcano dai parossismi violenti.
C’è un urlo metafisico. Perché Dio ci hai abbandonati? Forse la domanda non è neppure pertinente. Se ci avesse davvero abbandonati, non avremmo avuto vaccini nove mesi dopo l’inizio del male. Eppure siamo troppo stanchi, demoralizzati. Non vediamo futuro. E, quando non c’è più futuro, si è come morti. Ci sentiamo canne sbattute da troppi venti contrari, impotenti di fronte ad un male che –così lungo, così drammatico – non riusciamo a reggere.
C’è un urlo storico-politico, fatto di tante urla. Urla all’Europa (nostra unica salvezza) che poteva fare di più e meglio per la gestione sanitaria della pandemia. Urla contro il passato governo che, certo, si è trovato di fronte una tragedia da far tremare i polsi, ma ha limiti, se non colpe, nell’affrontare il virus, che la storia certificherà. Urla contro il nostro sistema amministrativo. (Mi chiedo se non sia il caso di abolire le Regioni. Siamo uno stato geograficamente piccolo, con abitanti in diminuzione, anzi in via di estinzione: non basta, a gestirlo, un potere centrale collegato a comuni e province?)
C’è un urlo più personale: per quello che ciascuno ha perso in termine di lavoro, relazioni, affetti, possibilità di vita. In termini psicologici, quest’anno è valso forse più di un anno di guerra guerreggiata, dove chi non ti è nemico ti è amico, mentre ora anche chi ti è amico ti può regalare un virus potenzialmente letale.
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