A cosa ti serve ’sta matteria, Bruno?
Gli sfulminò negli occhi il solito baleno di rabbia.
– A fare giustizia. Cos’ho da rimetterci? Al massimo, la vita.
– La vita vale piú di un’idea.
– Dipende da quale vita. E da quale idea.
Sí alzò un rumore da fuori, lui si affacciò svelto alla finestra. Poi gli cadde l’occhio sulla testa della negra. Piegò la bocca e la sfondò con il calcio del fucile. I frammenti, i capelli e le ossa si spargugliarono per il pavimento.
– Ti libero da quella bestia, Redenta. Stanotte. Te lo giuro.
Allora mi feci coraggio. Stavamo tutti per morire: tanto valeva cavarsi i rusghini dalla gola.
– L’ultimo giuramento che mi hai fatto non è andato a finire bene.
Lo sguardo gli si riempí di tristezza, ma durò un istante.
– Qua farò come voglio io. Non sarà qualcun altro a decidere per me.
– Cosa?
– Lascia stare –. Guardò ancora fuori dalla finestra, poi parlò mesto, come a sé stesso: – Che ne sai tu, Redenta, della vita? Cos’hai visto, cosa credi di conoscere? Te lo dico io: niente. Non sai che il mondo è molto piú difficile, molto piú sgumbiato di come ti sembra. Di come ti immagini.
– E perché non me le spieghi, queste cose tanto difficili?
Fece un sorriso che pareva un pianto, o una preghiera.
– Se stanotte campiamo, te le dirò. Va bene.
La prima cosa che segnalerei de I giorni di Vetro di Nicoletta Verna, edito da Einaudi è che si tratta di un romanzo. Non è, come sembrerebbe, un’osservazione di assoluta banalità. Una parte non indifferente della narrativa italiana che va per la maggiore è fatta di memoir, commistioni di storie più o meno inventate e note autobiografiche dell’autore/autrici, biografie con annesse autobiografie ecc.ecc., fiction e autofiction. Alcuni memoir, biografie, autobiografie variamente coniugate ad altre storie mi sembrano dei buoni libri, qualche volta degli ottimi libri. Ne amo parecchi e amo molti libri di pura fantasia. Però. Sarà che ho un’età, ma, quando mi trovo di fronte ad una storia che è chiaramente una storia inventata ma che nell’invenzione trasfigura fatti realmente accaduti e connette le vicende dei personaggi con la Storia, ma ho l’impressione di trovarmi più a casa.
La seconda è che, essendo il libro narrato in prima persona da due “io” femminili, le due voci sono distinguibili: cosa che non sempre riesce così bene. Nella lingua di Redenta – giusto per indicare un particolare – c’è un largo uso di espressioni dialettali perfettamente aderente al personaggio.
La terza è il tasso di violenza che viene raccontato. Violenza dei fascisti conquistatori in Etiopia (gli italiani sono stati tutt’altro che brava gente) e padroni in Italia, soprattutto nella fase repubblichina. Violenza anche quando non necessaria della banda partigiana comandata da Bruno-Diaz. Violenza contro le donne: il rapporto di Vetro con la moglie (senza nulla togliere a quello con la “sposa africana” del padre di lei) è di una ferocia che raramente ho letto così descritta in un romanzo. Violenza della storia che sembra dominare tutti, che non pare lasciare vie d’uscita ma in cui persone pur umiliate e sofferenti possono aprire crepe di luce. Lo scandalo della storia, di cui parlava la Morante, ancora più tremendamente squadernato, ma che si apre alla speranza.
La quarta, e decisiva nella mia valutazione, è che una parte dei libri li lascio nel momento in cui li finisco (perché ne leggo tanti? non so): mi hanno già detto quello che potevano dirmi (che ero in grado di ascoltare?). Questo mi sta continuando ad accompagnare, chiedendomi di pensarci ancora.
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