Ho passato la mia infanzia e la mia prima giovinezza in un piccolo mondo antico, ancorato ancora a tradizioni contadine seppure in movimento. Tra la nascita mia e quella di mia madre intercorre, più o meno, il tempo di una generazione e un cambiamento epocale: lei non aveva studiato e neppure i suoi fratelli (non era la femmina ad essere privata dello studio era la necessità che i bambini, tutti lavorassero), mentre che io andassi a scuola e ne proseguissi tutto il cursus hororum nessuno l’ha mai messo in discussione.
Non so fino a che punto, in quel mondo tradizionale, si fosse consapevoli che quell’ingresso in massa delle
donne a scuola avrebbe significato, nel tempo, la fine di un certo tipo di
relazioni familiari e l’inizio ad un processo di modifica dei rapporti
uomo-donna tuttora non del tutto definito.
Quello che ricordo è che, nella mia infanzia ma anche nella mia giovinezza, un insegnamento che mi è stato dato, in maniera diretta e indiretta, e in molti ambiti (per esempio: parenti, le monache dei miei primi anni di scuola) è che dovevo “stare attenta ai maschi”. Ogni maschio, padri e fratelli esclusi – ma non i cugini: “i cugini sono molto pericolosi” diceva suor R. – erano potenzialmente pericolosi on quanto attentatori seriali delle verginali virtù. E non era un caso che, terminato l’asilo, le classi erano rigorosamente distinte tra maschili e femminili.
Il mondo patriarcale – quello di mio nonno paterno, patriarca e galantuomo, che, secondo gli usi del tempo, comandava ma, certo, mai avrebbe picchiato mia nonna, o i figli, o una donna in generale (e, peraltro– aveva lasciato alle generazioni successive una sorta di codice di difesa delle donne: ritenendo che i maschi fossero, per natura, potenzialmente violenti o comunque prepotenti e sopraffattori, mettevano in guardia le donne: a loro il compito di starne alla larga e, nei confronti di fidanzati e mariti, il compito di umanizzarli, ingentilendoli.
(Per completezza aggiungerei che, c’era anche chi diceva ai ragazzi cresciuti di “stare attenti alle donne”, che volevano circuirli, farsi sposare ecc.ecc.)
Quanti uomini violenti ho incontrato nella mia vita? Sarò minoritaria, ma – in maniera diretta –nessuno. Quanti ne ho incontrati di stupidi, galletti di pollaio, convinti di essere superiori alle donne, più intelligenti, più capaci, più tutto? Parecchi. Battute volgari, o perlomeno inappropiate suelle donne quante ne ho sentite? Tantissime. Quanti ne ho incontrati di persone mature, affidabili, davvero competenti nella professione e in umanità? Davvero non pochi: alcuni miei amici sono davvero esemplari di una mascolinità positiva. La percentuale di donne stupide, ochette di pollaio, e di donne di notevole spessore che ho incontrato non è differente.
Tra me e mia figlia intercorre un’altra generazione. E a lei nessuno, che io sappia, ha mai detto di “stare attenta ai maschi”: ha sempre vissuto, a scuola e fuori scuola, in ambienti in cui c’erano bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne. E così la generazione successiva a lei.
C’è stato un lungo tempo, almeno due generazioni, forse tre, per conoscersi meglio, tra maschi e femmine, di aiutarsi a diventare uomini e donne: entrambi capaci di autodeterminarsi e di costruire qualcosa di buono, insieme. E, invece.
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