lunedì 4 marzo 2013

Una nonna in più



“Datti una regola; seguila. Rispetta gli orari. Se qualcuno ti è contro, procura di fartelo amico. E ricordati: a un prete si perdona tutto: tutto, meno la mancanza di generosità”.

Il giovane don S., fresco di prima messa, arrivò a San Pantaleo(ne), con in mente il viatico dell’anziano don Q., la cui cecità, in seguito alle schegge che un bombardamento gli aveva conficcato negli occhi, non aveva attutito l’imperiosa autorevolezza né sminuito l’attenta generosità della gioventù.

Era l’estate del ’46 e il paesino, poche case arroccate in salita, era ancora lo stesso borgo isolato che, fino a pochi anni prima, aveva ospitato alcuni confinati politici del regime fascista. Per raggiungere Reggio, bisognava andare, a piedi fino a San Fantino – solo pochissimi fortunati potevano pagarsi la vettura a cavallo – a prendere la corriera a San Lorenzo. Nella piazza, insieme alla chiesa che aveva una piccola canonica, si affacciavano il macellaio e lo scarparo. Nelle case, poverissime, le bestie, capre e maiali, convivevano con le persone. E due o tre case-ville, proprietà di baroni, di sangue e di denari.

Nella famiglia dei F., già il nonno era stato medico; dei nipoti maschi – i figli erano tutti morti – l’unico ancora vivo, era farmacista in un paese dell’Aspromonte. Socialista, fissato con l’istruzione per tutti – sosteneva animatamente con don S. che i bambini dovevano essere tutti tolti alle famiglie e messi in collegio, prima che la vita ne differenziasse i destini. Aveva una serva, che in tutto gli teneva commodo. Più volte le aveva detto: “Se muoio, prima ti prendi i soldi e poi chiami mia sorella”; così, quando si sentì male col cuore, lei pensò prima a ripulire la casa e poi a chiamare il medico: si salvò per miracolo.

L’unica sorella del farmacista, la signorina M., abitava in un’ampia casa davanti alla canonica. Aveva una serva-governante-amica-padrona che la rimproverava continuamente di distribuire troppi beni a chiunque andasse a chiedere e di offrire il caffè, preparato in abbondanza di primo mattino, a tutti quelli che arrivano durante il giorno, anche ai coloni, nelle cichere di porcellana. Non c’era famiglia del popolo che non si fosse fatta battezzare un figlio né ragazza che non avesse avuto qualche aiuto per la dote. Ogni mattina andavano insieme alla prima messa ed era la serva a portare nelle case di tutti il pane di ceci che, per devozione, la signorina impastava ogni anno per la festa di Santa Rita. Educata dalle suore in un collegio di città e fortemente religiosa, la signorina M. aveva il grande cruccio di non essersi sposata. Non è che avesse rifiutato qualcuno aspettando un partito migliore. Semplicemente, nessuno l’aveva voluta: perché era troppo brutta. Cosa che s’era sentita ripetere per anni, in contrapposizione alla sorella, lei sì bella, morta giovanissima, con il sotteso, e talvolta biascicato: “Ma, Dio, non si poteva prendere a te?”. Non aveva alcuna delle acidità attribuite alle zitelle; piuttosto un'intelligenza viva e uno sguardo attento, che univa ironia e compassione, ne accrescevano l'indipendenza dei giudizi, la libertà dello spirito.

Don S. arrivò in parrocchia insieme alla sorella, una ragazza di meno di venti anni, dalla lunga treccia bionda e dagli occhi verdi, che da subito entrò nelle simpatie della signorina M. Sbrigate le faccende domestiche nelle due stanzette della canonica e preparato il pranzo, la giovane si trasferiva ogni giorno nella più ampia casa dall’altra parte della piazza. Per la signorina fu l’amicizia fresca e giovane che il paese non le concedeva, per la ragazza come poter frequentare la scuola che tanto avrebbe voluto continuare e, nello stesso tempo, trovare una madre più amica di quella che l’aveva messa al mondo.

Quando don S. venne trasferito ad una parrocchia più vasta e importante, alle due donne non restò che versare lacrime senza fine per una separazione che sapevano definitiva. Si videro solo una volta, quando la signorina M. era ormai prossima alla morte e la sorella di don Santo aveva ormai una figlia grandicella. Che guardò la signorina M. con il panico che la vecchiaia, quando mostra le offese dell’istupidimento, suscita in occhi troppo avidi di giovinezza. Le sarebbero voluti molti anni ancora per riconoscersi nipote (anche) di quella terza nonna.
 
Pubblicato su Zoomsud col titolo: Il racconto. La terza nonna  http://www.zoomsud.it/commenti/48455-il-racconto-la-terza-nonna.html
 
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