venerdì 18 ottobre 2024

Quanto è strano quest'uomo. Pensieri sparsi di un soldato romano su Gesù

 

QUANTO È STRANO QUEST’UOMO

Pensieri sparsi di un soldato romano su Gesù

1.

È stato Marco, il mio schiavo più giovane e bello, che mi ha parlato di Lui. L’avevo mandato sulla spiaggia a controllare che il pesce migliore fosse portato immantinente al mio cuoco perché avevo ospiti di riguardo. E Marco tornò affannato per la corsa e con gli occhi brillanti. Disse: Padrone, sulla riva c’era un uomo giovane e bello – non aveva le forme perfette di Apollo, ma negli occhi una luce come se gli occhi tutti gli dei splendessero nei suoi – e stava parlando con dei pescatori. Ho pensato che volesse il pesce che tu avevi richiesto e mi sono avvicinato. Ho sentito che diceva: Venite dietro me, vi farò pescatori di uomini. Loro hanno lasciato lì le reti piene di pesci e l’hanno seguito. Sono stato io a togliere i pesci dalla rete e a portarli in cucina.

È vero che, di tutti i popoli dove ho servito l’Impero, questi ebrei sono proprio strani, adoratori di un solo Dio, in attesa che arrivi il Messia liberatore, sempre in gruppetti appresso ad un maestro. Ma uno che diceva a dei pescatori di lasciare il lavoro che lui li avrebbe fatti pescatori di uomini, e loro gli ubbidivano, ancora non l’avevo visto e sentito. Ho cominciato a seguirlo per curiosità, ma ho convinto i miei superiori che era prudente metterci un occhio. Discretamente, certo: i romani dominano con intelligenza e prudenza.

2.

Nella sinagoga ha guarito un indemoniato. La folla si faceva domande su di Lui. Per quanto nulla mi stupisca – vi dirò che i riti li rispetto tutti, perché così deve fare un cittadino e un soldato romano, ma il cuore non ce lo metto a nessuna divinità – vedere un uomo contorcersi e urlare, con voce di animale non d’uomo: Che vuoi da noi, Gesù nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!  – mi ha fatto impressione. Intanto l’uomo parlava come se fossero molti e si rivolgeva al guaritore come se fosse direttamente inviato dal Dio, ma chiedendo non guarigione ma di essere lasciato nel suo male. Il male uscì da lui come un vento potente lasciandolo affaticato e timoroso. Negli occhi di tutti c’era la paura che suscita Giove quando lancia la sua saetta sui mortali, ma nessuno andò via. Anzi, la sera, davanti a casa di Simone – dove per breve tempo s’era ritirato – portarono davanti a Lui malati e indemoniati e li guariva. Io guardavo e, sebbene nulla mi stupisca, stupivo. Perché ho conosciuto molti maghi e so che adoperano molte astuzie per sedurre le persone, ma Lui non sembrava agire per astuzia né per interesse.

3.

Qualche giorno dopo ho visto che gli scendevano un paralitico dal tetto di frasche per superare la folla che, in casa, l’attorniava. Lo guardò e disse: “Ti sono perdonati i peccati”. Che se ne importa uno, paralitico, che gli perdonino i peccati? Vuole solo poter camminare, no? E, poi, che sono i peccati? L’ho già detto: sono strani questi giudei che si battono il petto chiedendo perdono al loro unico Dio delle loro colpe, più saggi siamo noi romani che conosciamo i riti ma nulla sappiamo di colpe.  Anche i giudei ci rimasero a quel “ti sono perdonati i peccati” – per loro, i peccati li perdona solo il loro Dio e, così parlando, il giovane dai occhi luminosi si faceva Dio – e si guardavano tra loro, in silenzio. Lui li fissò con i suoi occhi di diamante e domandò: “È più facile dire: Ti sono perdonati i peccati o Alzati e cammina?”. E rivolto al paralitico disse: “Prendi la tua barella e va via”. E il paralitico si alzò e camminò, portandosi dietro quel letticciolo ch’era stato la sua condanna e ora poteva essere solo il suo riposo. E, sì, Lui si era comportato come Dio ed io non capivo dove stava il trucco, anzi pensavo che trucco non ce n’era. E di me mi stupivo più che di Lui.

4.

Non riuscivo a seguirlo sempre. Andava e tornava, era sempre per strada con i suoi discepoli. Guariva e parlava. Parlava e guariva. Non aveva riposo. Vennero a cercarlo i suoi parenti per riportarlo a casa, ma Lui negò che a quelli dovesse rispetto e onore. C’era sua madre tra quelli ch’erano venuti a prenderlo, ma Lui guardò chi gli stava seduto intorno e disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli”. E, ancora una volta, stupirono i giudei che hanno forte il senso dell’appartenenza familiare e stupii anch’io, che mai mi sarei permesso di negare attenzione in pubblico a mia madre. Ma quello che diceva bisognava interpretarlo. Era come l’oracolo di Delfi o come la Sibilla: parlava oscuro, Lui diceva che parlava in parabole perché non tutti intendessero le sue parole.

5.

Ero tra la folla che lo seguiva, dimentica anche di mangiare e dormire, quando ha benedetto due pesci e cinque pani. Tutti hanno avuto cibo in abbondanza e, di quanto è sovrabbondato, sono rimaste intere ceste. Anch’io ho assaggiato quel pane e quel pesce: un solo boccone mi ha saziato e mi è rimasto sul palato un sapore che mai, neppure nei banchetti di festa, avevo avvertito. Ancora una volta mi sono chiesto chi fosse e cosa volesse. Un uomo che può moltiplicare il pane può diventare un grande pericolo anche per l’augusto signore di Roma. Chi non seguirebbe un uomo che gli dà pane a volontà senza farlo neppure lavorare, basta che sta lì ad ascoltarlo? Quando avrà migliaia di uomini dietro di sé dove li condurrà?

6.

Sul monte fece un discorso lunghissimo che sembrava anche un programma elettorale.  Chiamava beati i poveri, quelli che piangono, i miti, i misericordiosi – tutti i poveri disgraziati, insomma – parlava come uno che non capisce che il mondo è dei ricchi, di quelli fortunati e forti o come uno che vuole ribaltare le regole del mondo e non sa che chi vuole ribaltare le regole del mondo è presto ridotto in cenere da chi ha il potere.

E ha parlato di una giustizia più grande di quella praticata nel mondo dei padri, che non solo va evitato il gesto violento ma anche la parola che offende o solo prende in giro. Nessuno sano di mente potrebbe negare che nel governo del mondo la violenza ha una parte necessaria, che chi può esercitare più forza è vincente. E ha detto pure che non si può ripudiare la moglie, che è illecito il divorzio: e, qui, ho dovuto trattenermi perché mi veniva proprio da ridere.

Ma ne ha dette tante altre di cose strane. La più strana che bisogna amare i nemici. Come cittadino romano, rispetto familiari e amici, i nemici li combatto con astuzia, se basta l’astuzia, con le leggi e le armi se necessario. Non capisco che c’entra l’amore, che è cosa di poeti. Ha detto pure di non preoccuparsi del cibo e del vestito, ma delle cose di lassù. Ma di che si dovrebbe occupare un cittadino romano se non del benessere particolare di tutta la sua famiglia nel benessere complessivo di tutto l’Impero?

7.

Si riferisce sempre al cuore. Dice che non bisogna comportarsi bene per farsi vedere dagli uomini ma perché è giusto così davanti a Dio. Loro hanno un solo Giove che comprende tutti gli dei, Ares e Apollo, Minerva e Nettuno, Marte e Mercurio, Venere e Giunone, ma non lo nominano. Lui non solo lo nomina, ma lo chiama Padre. Dice che bisogna pregare il Padre perché venga il suo regno – e qui di nuovo appizzo le orecchie, che di regno, anzi di impero basta quello di Roma. E al Padre, dice, bisogna chiedere che rimetta i debiti – sempre con questa storia delle colpe in questo paese, sembra proprio che siano tutti difettosi. E al Padre bisogna chiedere che non manchi il pane. A Roma il pane non manca. Cesare fa arrivare grano, abbondante, dalla Sicilia, ci cono molte panetterie e i fornai sono rispettati. Se mai non ci fosse pane a sufficienza, l’impero correrebbe un pericolo mortale. Qui usano il pane azzimo, senza lievito, che non è buono come il nostro. Tra i miei servi ho avuto un cuoco greco che con la farina faceva meraviglie. Il pane è lavoro di tanti e tutti, secondo il loro ruolo, ne devono avere. Che c’entra Dio col pane non l’ho capito, certo che Lui col pane c’entra, l’ho visto io stesso moltiplicare i pani.

8.

La parabola dei talenti mi è piaciuta. Questa cosa che a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha mi sembra sensata. Chi sa accumulare ricchezza è degno di condurre gli affari dello Stato. Non mi è piaciuta quella degli operai che hanno lavorato nella vigna chi sei ore, chi quattro, chi due, e hanno avuto la stessa mercede: un’ingiustizia bella e buona. Eppure Lui dice che è giusto così. L’ho detto e ridetto che è una persona strana.

9.

Ha pure detto che un pastore che ha cento pecore e ne perde una lascia le novantanove per cercare quella perduta. Ma nessun pastore, a meno che non sia pazzo, metterebbe a rischio novantanove pecore per recuperarne una. Si è pure paragonato ad un pastore, dicendo che Lui è il buon pastore che conosce le sue pecore e le pecore conoscono Lui. Ma non ha nulla del pastore e neppure del falegname (dicono che suo padre è falegname e che anche Lui aiutava in bottega): sebbene non sembra dargli importanza, il suo è l’aspetto di un nobile. Le sue vesti sono semplici ma non povere e le sue mani sono forti eppure delicate. Quando dice cose così, poiché mi sembra strano sì, ma non pazzo, penso che voglia dire cose che non capisco. Magari è un sapiente come certi rabbini o certi pensatori greci. E ringrazio gli dei che ai romani hanno dato capacità di costruire strade e acquedotti e di dare leggi a popoli diversi senza perdersi in tante strologherie.

10.

Entra nelle case di chi lo invita a mangiare, partecipa alle feste, frequenta la sinagoga lasciando spesso stupefatti o scandalizzati i pii ebrei che sentono un messaggio diverso – nuovo, dice Lui – rispetto alle loro credenze, ma sta volentieri con gente difettosa: lebbrosi, sordi, ciechi, paralitici, li cura e li guarisce. Ma non sembrava un mago. I suoi occhi sono laghi di profondità abissale, la sua voce, profonda e pacata, sembra un soffio ma scuote come un vento impetuoso che piega la cima degli alberi e spesso ordina di tacere la sua fortuna al guarito, che, invece, parla, parla. È come se volesse convincerti solo con le sue parole, e ai gesti di cura lo costringessero non la voglia di farsi clienti e proseliti, ma una compassione per il dolore che mi è capitato di vedere solo nelle madri, anzi solo in qualche madre.

11.

La parabola del ricco epulone mi ha fatto una grande impressione, forse perché ai Lari e ai Penati sono sinceramente devoto e mi aspetto che proteggano me e la mia famiglia da ogni male, anche dal male che involontariamente potrei fare io stesso. E c’è un’altra parabola che mi torna spesso in mente. Quella del samaritano che aiuta l’uomo incappato nei briganti. Anche a me è capitato di aiutare persone sconosciute. Ma non perdonerei mai l’amico traditore, il familiare che mi facesse torto. Altro che porgere l’altra guancia a chi ti ha dato uno schiaffo o dare il mantello a chi cerca di togliertelo.


 12.

Quel giorno c’era davvero tanta gente intorno a lui. Arrivò Giairo, uno dei capi della sinagoga e gli chiese aiuto perché sua figlia stava morendo. Gesù gli fece cenno di precederlo e andò con lui, la folla lo seguiva. Pensavo che Gesù andasse in fretta verso la casa dove la fanciulla lottava con la morte. Invece, dopo pochi passi, mentre la folla gli si accalcava addosso si fermò. Aveva una voce dolce, di solito, ma non sempre. Qualche volta c’era rabbia o comando. Anche in quel momento la sua voce era quella di un uomo molto seccato. Chiese chi gli avesse toccato il mantello.  I discepoli che gli stavano intorno come una guardia d’onore lo guardarono sbigottiti. Nessuno disse, ma tutti pensarono che pretendeva troppo. In quella confusione come riconoscere chi l’avesse toccato? Una donna si fece avanti e disse: “Ti ho toccato io.” E spiegò che sperava così di guarire da dodici anni di mali, che medici e medicine avevano lasciato intatti. Lui la guardò e disse: “Sii guarita. Vai in pace.”

Tratta le donne come se fossero pari agli uomini – cosa inaudita. Pure tra quelli che lo seguono ci sono anche donne, uno scandalo che pare accettato sia dai suoi che dalla folla. Le matrone romane sono dominae, signore ma, in una compagnia di uomini, non se ne trovano. 

Mentre Gesù parlava con la donna, arrivarono messi dalla casa di Giairo per dire che la fanciulla era morta. Ma Gesù disse a Giairo: Abbi fede, e riprese a camminare. Cosa successe dentro la casa io non l’ho visto, ma ho sentito i lamenti diventare canti di gioia. La giovinetta si era alzata e mangiava. Io sono forte, non ho paura del sangue e della morte. Mi è capitato di uccidere in battaglia e mi capiterà ancora. Ma anch’io ho una figlia giovinetta e non sopporterei che le succedesse qualcosa di male. Se quest’uomo riesce a sconfiggere la morte, allora lo seguiranno più di quelli che cercano pane? È davvero un uomo pericoloso per il potere romano? Ma io, io? Chi è Lui per me?

 

N.B. Avevo appuntato questa bozza per un progetto poi sospeso. Mi piace, però, condividerla.

 

 

 

 

 

domenica 1 settembre 2024

Liberata di Domenico Dara

 

A venticinque anni, dattilografa ricercata da notai, avvocati e professionisti per la sua rapidità e precisione, con una sola amica, l’esuberante Giuditta, e un amico, l’edicolante Glauco, Liberata Macrì vive come sospesa nell’immaginario che le viene fornito dai fotoromanzi che legge e rilegge avidamente, conserva con cura, spolvera con delicatezza. Crede in tutto ciò che è invisibile, ma non in Dio. Le vicende amorose in cui, comunque, alla fine, ogni casella trova una ricomposizione positiva, soprattutto quelle di cui è protagonista Franco Gasparri, per lei essenza di ogni bellezza e bravura, sono il suo modo per attraversare la vita senza scosse. Si protegge così dalla ferita originaria di una madre che, avendo sofferto troppo in gravidanza, è ben poco materna: una mancanza cui non riesce a sopperire neppure l’affettuosità del padre.

Una vita fatta di tranquille ripetizioni (anche i pranzi, a casa loro, seguono una rigida scansione settimanale) viene messa in movimento dal contemporaneo arrivo in paese di un entomologo (la passione per gli insetti è condivisa dal padre di Liberata) e di un giovane meccanico che nell’officina del padre va a lavorare.

La vicenda amorosa tra il ragazzo, Luvio, e Liberata avrà, per lei, e non solo per lei, risvolti inattesi che daranno pieno senso al suo nome (la modificazione del nome Liberata è il refrain che chiude molti capitoli) e un diverso equilibrio a tutto il piccolo mondo, familiare e amicale, della ragazza. Mentre le nuove norme sul divorzio, con il relativo, annunciato referendum che avrebbe tentato di annullare la legge, e le tensioni fascisti-comunisti fanno serpeggiare, anche negli angoli più remoti del paese, una stagione di tensioni e cambiamenti.

Dopo il grande successo di Malinverno, Domenico Dara torna in libreria con Liberata, edito da Feltrinelli, un libro che da una parte conferma la sua passione per storie marginali, con una forte componente fantasticheggiante, e, dall’altra, la innova con un racconto lieve che potrebbe anche definirsi un romanzo di fotoromanzi, nel senso che tutta la vicenda potrebbe (o avrebbe potuto) tradursi anch’essa in uno dei fotoromanzi amati da Liberata.

Diceva qualcuno che gli uomini sono quello che mangiano. Nessuno può negare che sono anche quello che leggono: e Liberata diventa davvero se stessa attraversando, nella realtà, una storia che avrebbe potuto leggere in una delle sue amate riviste.

(Parentesi personale: quand’ero giovane, molte ragazze e signore leggevano Fotoromanzi; io ero stata educata a considerali un genere non solo inferiore ma anche in qualche modo poco morale, comunque disdicevole per una ragazza per bene. Ne ho letti parecchi da più che adulta, perché mi ero convinta che fare un fotoromanzo a Nisida sarebbe stato un buon modo di imparare a leggere e a scrivere e non solo: ne realizzammo due e sono stati tra le esperienze più belle della mia vita, quelle che hanno fatto davvero fatto ridere di cuore ragazzi e ragazze e, insieme, hanno dato loro tanto anche in termini di educazione alla bellezza, di educazione sentimentale).

Notevole la sensibilità di Dara nel restituire pensieri ed emozioni di una ragazza calabrese di inizi anni Settanta, ancora non toccata dal 68, che vive la sua gioventù dentro un fotoromanzo. Ci ha dato così un romanzo di formazione aereo, lieve e luminoso. Un romanzo-fotoromanzo non solo nella protagonista, ma in tutti i suoi personaggi. Liberata diventa adulta quando accetta il confronto, pur doloroso, con la realtà, ma tutto il tempo che aveva passato con i suoi fotoromanzi per difendersi dal mondo ne avevano pur affinato la sensibilità atta ad affrontarlo.

mercoledì 10 luglio 2024

Su Alice Munro e sua figlia Andrea Robin Skinner

 

Perché non dovrei valutare il comportamento di Alice Munro nei confronti della figlia Andrea Robin Skinner e del secondo marito che quella bambina ha molestato ma è stato, per così dire, perdonato per amore? Una Nobel che reagisce sentimentalmente come una sciacquetta qualsiasi o una delle tante madri che coprono gravissimi abusi domestici resta una grande autrice ma, appunto, può insegnare come si scrive, ma non come si vive. I suoi libri aprono mondi, illuminando soprattutto aspetti ombrosi del rapporto madre-figlia: non è questo in discussione. Ma non è neppure in discussione che il suo magistero resta dentro i libri: lì va lasciato e non oltre.

Non penso che persone e opere si identifichino. Per fare un solo esempio. Ho riso su alcuni (non tutti) film di W. Allen, ma non ho nessuna stima di lui come persona.

Quando insegnavo ho passato ore e ore a ribattere ai ragazzi che dicevano di non poter essere giudicati nelle loro azioni: effetto perverso, a mio parere, visto che lo concedevano a Dio, di un raffazzonato cattolicesimo. Dicevo loro che indubbiamente nessuno poteva dare un giudizio che fosse una sorta di marchio globale e definitivo sulla loro vita, sul groviglio di esperienze, sugli incastri psicologici che ne avevano determinato le azioni. Non ho mai avuto dubbi che, se avessi vissuto come loro, mi sarei con altissime probabilità comportata molto peggio di loro. Ma quel mio (eventuale) comportamento come il loro (effettivo) andava valutato: pena l’incapacità di distinguere ciò che non dà problemi al prossimo e ciò che, invece, li moltiplica, il bene e il male, insomma.

Sapere che la Munro non è stata una madre sufficientemente buona (vedi Winnicott) conferma che: 

le persone sono impastate di ombre e di luce;

le donne non sono migliori degli uomini e le madri non sempre proteggono i figli;

un libro può essere eccelso anche se chi l’ha scritto fosse ben poco raccomandabile;

sui piedistalli non sono in tanti a reggere a lungo.

Non essendo io un genio della letteratura non è un rischio che corro, ma mi chiedo: nel caso le due cose non riuscissero a convivere, preferirei scrivere un libro immortale o vivere secondo sincera e buona moralità?