Ci sono ragioni per sperare? O
siamo in una di quelle fasi storiche in cui si deve sperare senza speranza?
Dove tutto – la pericolosità della
malattia, le difficoltà sanitarie ad affrontarlo, la debolezza della politica a
indicare una prospettiva, il baratro della crisi economica, il dramma del
lavoro che non ci sarà, la scuola che chissà se riaprirà a settembre, i traumi
dei “confinati a casa” e quelli di chi ha continuato a lavorare fuori, la
tragedia dei camion militari con le bare forse già scordata, la depressione
crescente degli anziani soli e i danni accumulati dai bambini senz’aria e senza
scuola e, sopra ogni altra cosa, i bambini che non nasceranno (pare che nei
prossimi mesi avremo un ulteriore, sensibilissimo, decremento dell’indice di
natalità) – ha tonalità scure.
La nostra storia, come l’abbiamo
conosciuta, come siamo in grado d’interpretarla, è all’inizio della fine? Per
ogni storia che muore, ce n’è una che nasce. Ma, questo, vale per le comunità,
per i paesi. Per i singoli, la storia che muore è la morte.
Per quanti, in questi due mesi così
imprevisti, s’è sbriciolato il futuro e, con esso, ha perso senso il passato?
Quanti non vedono più luce, per quanto flebile, all’orizzonte? Per quanti è
scomparso proprio l’orizzonte?
Quanti le ultime energie le spendono nella
luce (buia; inconsapevole) del compiere il quotidiano dovere nudo dell’essere
qui, nel mondo, oggi? Magari solo a pulire, a cucinare. Magari, leggere,
pensare, forse pregare. Con la speranza di chi speranza non ne ha.
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