Superato il mese di isolamento – che, per me, è stato
davvero tale: conteggiando tutte le radissime uscite, non ho fatto, in tutto, neppure
200 metri fuori casa – comincio a rivedere, mentalmente, i luoghi che frequento
di più. Nulla di particolare: la strada, per esempio, che porta al pescivendolo
o alla panetteria. Eppure, è come se la mente cominciasse, di nuovo, a uscire
di casa, si muovesse, di nuovo, nello spazio più abituale. Per molti giorni,
non è stato così. Non ho mentalmente visto niente, se non lo spazio di casa. O,
forse, non è proprio così, qualcosa ho visto: ripetutamente.
C’è una strada sul mare che amo molto. Non è più il
luogo incantato della mia infanzia, ma il mare, con l’Etna sullo sfondo, resta,
per me, l’orizzonte più bello del mondo (insieme a quello che si gode da
Nisida). Ma non è quella, la strada che ho visto: quasi in sogno, come se
entrassi in un tunnel, o meglio, fuoriuscissi da un utero. Ne vedevo un’altra,
e in un punto particolare, una curva dove, d’estate, si adagia l’ombra di un
fico, inerpicandosi, più solitaria, verso la campagna. Verso la terra dei
sudori dei nonni, della fatica dei genitori. Un richiamo alle radici. Come se
in quelle zolle fosse nascosto il segreto profondo della mia identità: il
tesoro nascosto da cercare.
P. S. La Via Crucis a piazza San Pietro – ancora una
volta col Papa senza gente: un’immagine di rara potenza – è la più bella che io
ricordi, la più densa. Provvidenziale che, nei giorni di domiciliari per tutti, le meditazioni siano venute dal carcere e
dintorni.
Nessun commento:
Posta un commento