sabato 11 aprile 2020

Il regalo di una Pasqua speciale






Superato il mese di isolamento – che, per me, è stato davvero tale: conteggiando tutte le radissime uscite, non ho fatto, in tutto, neppure 200 metri fuori casa – comincio a rivedere, mentalmente, i luoghi che frequento di più. Nulla di particolare: la strada, per esempio, che porta al pescivendolo o alla panetteria. Eppure, è come se la mente cominciasse, di nuovo, a uscire di casa, si muovesse, di nuovo, nello spazio più abituale. Per molti giorni, non è stato così. Non ho mentalmente visto niente, se non lo spazio di casa. O, forse, non è proprio così, qualcosa ho visto: ripetutamente.
C’è una strada sul mare che amo molto. Non è più il luogo incantato della mia infanzia, ma il mare, con l’Etna sullo sfondo, resta, per me, l’orizzonte più bello del mondo (insieme a quello che si gode da Nisida). Ma non è quella, la strada che ho visto: quasi in sogno, come se entrassi in un tunnel, o meglio, fuoriuscissi da un utero. Ne vedevo un’altra, e in un punto particolare, una curva dove, d’estate, si adagia l’ombra di un fico, inerpicandosi, più solitaria, verso la campagna. Verso la terra dei sudori dei nonni, della fatica dei genitori. Un richiamo alle radici. Come se in quelle zolle fosse nascosto il segreto profondo della mia identità: il tesoro nascosto da cercare.

P. S. La Via Crucis a piazza San Pietro – ancora una volta col Papa senza gente: un’immagine di rara potenza – è la più bella che io ricordi, la più densa. Provvidenziale che, nei giorni di domiciliari per tutti, le meditazioni siano venute dal carcere e dintorni.

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