Ci saranno più persone di prima, in chiesa,
quando si ricomincerà a celebrare la messa coram populo?
Non lo so. Ma sarei pronta a scommettere che
questa fase di chiese vuote, di celebrazioni via il vituperato fb, di ore e ore
(a cinque, dieci minuti ciascuno o qualcosa in più) di commenti della Parola,
potrà dare vita ad una nuova primavera del cristianesimo.
La celebrazione delle Palme col Papa (unico
referente morale al mondo, in questo momento) quasi solo in un’impressionante San
Pietro pressoché vuota – un’immagine inimmaginabile anche per Moretti o
Sorrentino – dà la dimensione di un tempo in cui, chi vuole, deve “adorare Dio”
non in questo o in quel luogo, ma “in spirito e verità”.
Se negli ultimi decenni abbiamo nascosto morte,
malattie, dolori d’ogni sorta dietro facce truccate, smanie da permanente villeggiatura
e nell’illusione di magnifiche sorti e
progressive, in questi giorni la Croce è un simbolo potente (direi: il: non mi pare ce ne siano di equivalenti)
di un comune destino umano: sottoposti, tutti, come siamo, anche quelli di vita
più facile e fortunata, alla morte e, prima, al senso di precarietà e di
fragilità della vita.
Il Dio impotente,
quello che, sulla croce, ha gridato Dio
mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? rimanda ad una povertà essenziale rispetto alla fede: che non garantisce nessuna
soluzione facile rispetto al dolore e alla morte. Ma lega una consapevolezza – quella,
per chi crede, di avere Dio non in serafico olimpo, ma compagno del proprio
dolore (il termine compagno indica chi mangia lo stesso pane: e, quindi, chi
mangia lo stesso dolore) – ad una speranza. Che, per quanto intollerabile e assurdo,
il dolore possa avere un senso. Che non sia l’ultima risposta alle domande che
il silenzio di questi giorni fa più chiaramente affiorare alla coscienza.
P.S. In un film intitolato Il diritto di opporsi c’è una frase che mi sembra un programma per l’oggi
e il dopo: “Il contrario della povertà, non è ricchezza, è giustizia”.
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